Controluce e azzurro di smalto.

Controluce e azzurro di smalto.

“Della Sardegna è facile amare il mare, i suoi colori: sono talmente potenti da non poterli ignorare. Quello che è difficile scoprire è la sua gente. I sardi parlano una lingua unica, sono orgogliosi e testardi, ironici e fatalisti, con un’innata cortesia che scalda il cuore. La loro storia antica ce l’hanno scavata dentro, come solchi di una montagna.”

Nel giugno del 2019 leggevo Flavia’s end, sprofondata nella mia seggiolina sulla sabbia e nella storia, imbastita da Claudia Aloisi.

Leggevo di Flavia, Luigi, Maria, Estelle e Marco. Leggevo di blu cobalto del mare mentre il mare mi teneva compagnia. 

Era stato come conoscere la mia terra per la prima volta, con i miei stessi occhi posati però  sulle strade, sulle pietre e sui tramonti con il filtro delle pagine scritte da Claudia.

Questo Natale ho scartato un dono che mi ha fatto brillare gli occhi di urgenza. 

Con i libri, succede molto spesso. Con quelli desiderati, anche di più.

Eccola, la sua amata baia: il mare sempre di un tono più intenso del cielo, i monti di Nebida, protesi sull’acqua; le case aggrappata alle rocce nel loro incerto equilibrio, la familiare sagoma della torretta di Porto Flavia, invisibile a tutti, tranne a chi sapeva dove guardare. E poi lui, il Pan di Zucchero: il maestoso faraglione di calcare bianco striato dall’erosione, che si ergeva dal mare con la sua forma irregolare ma inconfondibile. Quello era il panorama che scandiva il tempo a Nebida […]”

Controluce. Claudia Aloisi.

Incredibilmente, a pagina 48, ero già consapevole di cosa avrei detto o meglio, scritto, alla fine. 

Perché la sensazione è arrivata chiara e limpida lasciandomi certa che sarebbe perdurata fino all’ultima riga. 

È stato come tornare a casa, senza essere mai andata via, eccetto qualche meravigliosa incursione di mondo là fuori. 

Estelle Moreau, fotografa belga, si trova suo malgrado a ripercorrere i passi su quella terra che già una volta l’aveva accolta e sconvolta.

Tra i misteriosi eventi che collegano di nuovo passato e presente in un gioco di luci e ombre, il profumo salato dell’acqua di mare, il cielo “azzurro di smalto” rischiarato dal maestrale, e il gusto morbido di mandorle e arancia dei guefus, Estelle si interroga ancora una volta su cosa voglia davvero. Non è la sola a doverci fare i conti.

Domandarlo non è difficile.

Complicato è semmai trovare le risposte, nascoste in fondo a strati e strati di roccia. 

Controluce non racconta soltanto una storia avvincente. 

Ne racconta due: quella degli anni 20 del 1900 e quella degli anni 20 del 2000. 

Ne racconta molte di più.

Perché ogni personaggio è un po’ come Shreck spiega a Ciuchino nel primo film d’animazione che li vede protagonisti: strati! 

Le persone sono fatte di strati. Che siano più simili a cipolle o a torte, questo è tutto da scoprire. 

Ma fa sempre riflettere l’evidenza, che ogni tanto scordiamo, che luci e ombre possano convivere dentro un’unica anima. 

Quanto ai luoghi, l’urgenza di leggere si accompagna all’urgenza di andare a vederli.

Di nuovo, ancora e sempre, con quella suggestione in più che da i brividi. 

La fantasia, si mischia alla realtà nell’ultimo giorno dell’anno, un giorno di sole.

La presenza del passato, tangibile anche se assente. 

E basta un libro a evocare tutto questo.

A schiarire un po’ la vista, dopo che era stata abituata a parecchio buio.

La magia come risultato di un lungo lavoro di immaginazione, pazienza, fatica e passione.

Che meraviglia scrivere! E che meraviglia leggere! 

Ed emozionarsi sulla pelle, quando per uno strano effetto, sembra di scorgere qualcosa all’imboccatura di una galleria, controluce. 

© Erika Carta

Pomodori  verdi fritti al caffè di Whistle Stop

Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop

Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop.

Non sembra anche a voi che queste parole suonino?
Io non lo so come, ma ci sono finita dentro a questa musica.
Irrimediabilmente attratta.
L’ho sentita da qualche parte nel mio corpo. La testa forse, le vene o in un battito diverso.
Così, ho letto il libro di Fannie Flagg.
Alle prime venti pagine mi son chiesta perché non l’avessi mai letto prima.
Quando ho terminato, la domanda si è rafforzata ma tra le mani ho avuto anche la risposta: perché il tempo è questo.
Semplice, come sempre quando si tratta di libri.
Perché avevo bisogno ora di Whistle Stop. Di tutti i suoi abitanti, dei vagabondi, del suo caffè pulsante, della posta che diventa giornale, della famiglia Threadgood, di Troutville, di Idgie.
Ne avevo necessità come ce l’ha Evelyn Couch, senza saperlo.
Evelyn che ascolta Ninny Threadgood alla casa di riposo, raccontare il passato che si mescola al presente. La felicità e la nostalgia.
E allora sembra di scoprire e insieme conoscere da sempre l’Alabama degli anni venti-trenta, di sentirne tutto il fascino.
Mi sono sopraggiunte tre assonanze in lettura, due spontanee e una indotta, grazie al filo di continuità che lega l’ArgoCircolo Letterario ai libri.
Mi è sembrato di ripercorrere le pagine e le strade de “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee. Idgie Threadgood e Scout Finch, indomite paladine della giustizia, quella vera.
Ho trasposto Whistle Stop nella fantasia del Connecticut, precisamente a Stars Hollow, dove vivono le ragazze Gilmore e tutti quei personaggi come Sukie, Patty e Babette, Luke, Taylor, la signora Kim, che fanno di una piccola cittadina un’unica grande famiglia.
E non avevo visto, finché non me lo hanno fatto notare appunto, la somiglianza con “Fai piano quando torni” di Silvia Truzzi. Anche qui, un forte legame, improvviso, tra chi porta la memoria in mezzo alle rughe, sulla pelle invecchiata delle mani, nelle parole. E chi la raccoglie nel cuore.
Pomodori verdi fritti, oltre a far venire immediatamente voglia di cucinarli, è uno di quei libri che non passa. Che ti scalda, ti scioglie e ti rinfresca. Che fa sorridere quando sul giornale Dot Weems oltre alle notizie ufficiali, ne approfitta per lamentarsi della sua dolce metà. Che ci ricorda l’importanza di essere generosi e caparbi. E fa commuovere, quando tutto scorre, quando il tempo cambia ma non cancella i ricordi e crea nuove cose.
È uno di quei libri che, una volta letto, sarà anche tuo, per sempre.
E ogni tanto è bene che venga fuori… TOWANDA!!

©Erika Carta

L’eclisse di Laken Cottle. Luce e Buio.

L’eclisse di Laken Cottle. Luce e Buio.

Il 2020 è stato l’anno che tutti sappiamo.

Che ci ha dato in pasto l’illusione di un tempo fermo mentre tutto, in verità, ha continuato il suo ruzzolare in avanti.

Mi rivedo in spiaggia, a metà d’agosto di quell’anno, lontana dalla bolgia con soltanto il mare libero davanti. E un libro.

L’estate che sciolse ogni cosa” di Tiffany  McDaniel. Atlantide Edizioni. Copertina bianco lattiginoso e raggi di sole.

Pagine dense di male eppure così folgoranti nella loro bellezza da riuscire, non solo a non appensantirmi, ma addirittura a farmi intuire la luce. Che ancora mi porto dentro.

Non riesco a farlo quasi mai ma il 2020 risulta più digeribile se categorizzato, etichettato.

Il mio 2020 è anche questo: L’estate che sciolse ogni cosa.

Poi arriva “L’eclisse di Laken Cottle”. 

Copertina nera con luccichii bianco argento in rilievo.

Buio totale.

Ancora da sedimentare ma con urgenza di scriverne.

Ormai ho familiarizzato con la scrittura di Tiffany McDaniel. Sembra che ogni libro sia una porta per la sua anima e di contro, per la propria.

Comunicanti.

Non graffia, affonda.

Credo abbia un dono (e non sono l’unica a crederlo) disarmante nella sua semplicità e vitale, per me: sa raccontare storie.

Chi racconta le storie governa il mondo”, come recita un vecchio proverbio della tribù degli Hopi. 

Laken Cottle e il buio.

Due protagonisti? 

Inizialmente si ha l’impressione di conoscere le vicende di Laken, bambino e adulto, mentre l’oscurità avanza ai lati della storia.

Inghiotte intere città, stati, persone. 

L’immagine mi riporta anch’essa al tempo infausto e incomprensibile che abbiamo vissuto e che continua a imperversare cambiando soltanto modalità di buio.

Dalla Spagna, il buio galoppa come un colossale toro nero in Portogallo, dove la gente sbarra le porte e spranga le finestre credendo così di tenere a bada l’invasore oscuro. Ma questo buio affronta le porte chiuse e i muri resistenti con la stessa facilità con cui falcia il grano in un campo. […] Le donne si fermano, osservano questo buio che rotola verso di loro, i cesti non ancora completati cadono per terra; puntano le dita al cielo nella lingua condivisa della paura.

Ma a un certo punto ci si chiede: cosa stiamo leggendo?

Domanda che rimane marginale perché si viene attratti dal vortice di parole che richiamano immagini nitide quanto bizzarre.

Se stessi raccontando il mio pensiero sul libro ai gruppi di lettura In Libro Veritas dell’ArgoCircolo Letterario, direi che ci ho visto il genio folle di Stephen King, le atmosfere gotiche di Carlos Ruiz Zafón… e qualcuno mi avrebbe risposto che c’è tanto anche di Neil Gaiman.

Nella McDaniel riemergono temi come il forte senso di colpa, la violenza, il male che contamina, la rimozione, l’autonarrazione, la completa solitudine, la domanda senza risposta verso qualcosa di più grande, la ricerca di redenzione, d’amore.

Un bisogno talmente forte, viscerale, da cercarla con gli occhi la luce.

Fissare il sole a occhi nudi significa intravedere la nostra natura mortale. Una luce così potente: possiamo esserne accecati e provare quasi gratitudine. Perché, grazie a quella luce infuocata, stiamo entrando in un regno abitato dagli dèi e dalle creature che respirano fuoco. Esistono poche cose degne come la luce del sole; e mentre Laken fissava quel bagliore intenso, sentì in qualche antica fessura della sua anima la dolce carezza dell’esplosione celestiale. Il sole, una promessa che c’è stata data.

E tutto questo è raccontato con originalità e maestria. Così vivido, vero e brutale da avere un impatto accecante.

Difficile staccare gli occhi dalle pagine. Anche se fanno male, anche se verso la fine saprai dove andranno a parare.

Anche se l’eclisse sarà totale. E permanente.

Questo pensavo quando ho chiuso l’ultima pagina.

Buio.

Invece, ora che scrivo, proprio mentre succede, mi accorgo che ancora una volta, anche questa volta, sono riuscita a trovare la luce che interessa me. E che sono sicura mi leghi in qualche modo a Tiffany McDaniel.

È nell’oggetto rettangolare e profumato di carta che in questi (troppo pochi) giorni ha pesato sulle mie mani, alleggerendo il resto. È in questa frase:

“Di tutte le cose che ci sono state date, proclama il Re Sole a gran voce, ignorando le urla di Laken, di tutte le cose che abbiamo ereditato dal primissimo uomo, è forse la nostra immaginazione, la nostra mente, a essere la più preziosa. Siamo capaci di dipingere un uccello con le nostre mani, ma è con la nostra mente che riusciamo a farlo volare.”

© Erika Carta

Lettere d’amore in dispensa

Lettere d’amore in dispensa

Dargen D’amico nella sua canzone di Sanremo, “Dove si balla”, a un certo punto dice: 
“E non si può fare la storia se ti manca il cibo.
Tu mi hai levato tutto tranne l’appetito”.
Sorrido ogni volta che lo sento. Perché, per me quel Tu è l’Ansia. Che stava per rovinarmi uno dei rapporti più belli, sinceri, gratificanti e duraturi della mia vita: quello con il cibo, appunto.
Ho vinto io.
Beccati questa, bitc*
E così, oggi apro la mia dispensa. E cosa trovo? Popcorn e vino (alla Olivia Pope) e… un libro. Silvia Casini Raffaella Fenoglio che parlano d’amore e di ricette.
Il binomio tra cuore e pancia è cosa nota. Ma c’è un altro aspetto che mi ha colpita: 

[…] che usiate o meno un pizzico di magia in cucina, c’è da dire che dietro al mangiare, vi è un desiderio di comprensione umana. Jacques Lacan, Psicologo e filosofo francese del 900, la pensava proprio così. Infatti, soleva affermare che a monte della domanda di cibo, ve ne era una simbolica di amore e di comprensione […] E come ci ricorda Marcel Proust, dietro all’atto del cibarsi vi è anche il desiderio di ricordare. È esemplare come di fatto il piatto preferito di un individuo sia collegato a un determinato ricordo. Nutrirsi è quindi anche memoria […]

Comprensione e memoria. Cosa può esserci di più romantico? Ve lo dico subito: i dieci ingredienti afrodisiaci, selezionati per questo racconto di cose buone.I menù pensati per due, “fatalmente”. E le parole, che sempre danno forma e sostanza.

Allora scelgo ciò che più mi ispira e apparecchio la tavola con “un runner” e “un centrotavola naturale con frutta e bacche di stagione”. Alla luce di una candela alla vaniglia leggo Poesie d’amore di Nazim Hikmet. È tutto nella mia testa, per ora. Siamo io e me. E questo appuntamento galante con l’amore ritrovato. Eppure, aggiungo un terzo aspetto a comprensione e memoria: condivisione. Trema amore, tremate familiari e amici, perché presto, subirete i miei tanto famosissimi quanto fallitissimi esperimenti culinari. Confido che seguendo alla lettera un libro come questo, saprò stupirvi e deliziarvi. Dalla forchetta alla parola. 

Antipasti 
Galette di fragole, feta e timo. All colours gluten free 

Primo
Gnocchi con crema alle mandorle. Delizioso gluten free

Secondo 
Tagliere di formaggi con marmellata di peperoni e peperoncino  Frizzante

Contorno 
Avocado: quanta bellezza ho visto. Quanta meraviglia ho sperimentato. Quanta esistenza piena di suggestioni sono stata. Evocazioni somiglianti al segreto della mia musica interiore. Perché io sono questo amore.
Gourmand

Dolce 
Fichi : L’angolo di paradiso però, rimase intatto. Reggeva soddisfatto tegole, armonia e presenze. 

Tra un’esplosione di luce e una caduta, dal mare al ,faro per tutte le vie, nei templi e nell’aria, squarciò lastre di felicità e di essenza. 

Sorpresa

Lettere d’amore in dispensa.
Silvia Casini & Raffaella Fenoglio

Stappo una bottiglia di Ferrara Greco di Tufo Vigna Cicogna.

Brindo a voi e a questa vita. Pace, amore e gioia infinita
Negrita 

©Erika Carta

Breve storia del romanzo poliziesco

Breve storia del romanzo poliziesco

Le brevi storie di cui Graphe.it ci fa dono sono un po’ come le giornate che sembrano primavera a febbraio.
Inaspettate e luminose, vorresti non finissero tanto presto. 
Ma come insegna la frase che dà voce alla collana: parva scintilla magnum saepe excitat incendium. 
Una piccola scintilla.
Breve storia del romanzo poliziesco. Leonardo Sciascia.
Impreziosito da un’introduzione di Eleonora Carta.
C’è un filo che li lega, perché conosco Eleonora e sono certa che come Sciascia, ha avuto “un’adolescenza e una prima giovinezza trascorse in compagnia della vorace lettura” di gialli.
Che sempre continua, affiancando il suo lavoro di autrice.
In veste analitica, in questo breve saggio, ci introduce alla storia del romanzo poliziesco, segnalando il punto di confine su cui Sciascia opera magistralmente.
Non più il giallo declassato a mero passatempo, a “meditazione senza distacco” ma “uno strumento d’elezione per raccontare la società e i suoi mali.”
Cuore delle riflessioni di Sciascia, che si aprono qui con un ritratto di Giacomo Putzu, l’assunzione di significati del poliziesco, nel tempo e nello spazio. 
Analisi, denuncia, persino frustrazione. 
Pensiero critico.
Tutt’altro che lettura passiva. 
Il ruolo dello scrittore che inizia a cercare attivamente la verità, identificandosi con il personaggio tanto da riconoscere eguali il metodo di indagine e il metodo di scrittura, come per esempio in Maigret e Simenon.
Da Poe a Christie, da Chandler a Spillane, l’evoluzione delle figure di investigatore e aiutante, di poliziotto e delinquente. Personaggi che diventano “tipi”.
Personalmente, mi ha colpito tantissimo il paragone con le maschere delle commedie d’arte.
Ma se dovessi riportare ogni cosa che ha fatto breccia in me, vi racconterei il libro con parole tutte mie e non ne varrebbe la pena. 
Perché ci hanno pensato Leonardo Sciascia, Eleonora Carta, Giacomo Putzu con la sua arte e la la Graphe.it a liberare questo concentrato di bellezza e conoscenza.
Di meraviglia.

© Erika Carta

Il grembo paterno

Il grembo paterno


“…e l’acqua l’accarezzava perdonandole tutto, come solo prima di esistere succede, come solo nel grembo materno.

Nel grembo paterno.

Dove galleggiamo quando ancora non siamo successi, nella pancia delle donne, nella mente degli uomini che ci aspettano e che, se si perdonano di farci venire al mondo senza avercelo chiesto, in quei nove mesi devono per forza promettere a noi che tutto ci perdoneranno, che basterà l’amore, l’amore sistemerà sempre quello che sbagliano.

Almeno fino a quando non si sfascia: ma che si possa sfasciare, l’amore, le pance delle donne e le menti degli uomini incinte se lo devono dimenticare, altrimenti non potrebbero essere mai tanto pazzi da invitare un altro essere umano, che per di più dovranno sfamare loro, a partecipare a questo terremoto dove gli altri ci sono, poi escono a controllare i fari, poi non ci sono più e poi tornano o magari no – e chi lo sa cosa è meglio”.

Il grembo paterno è una lettera.

Lunga 223 pagine. 

Una lettera che tutti i figli rimasti figli vorrebbero ricevere. 

Un racconto, un fortissimo grido, vomito di parole.

Un’ammissione di responsabilità, un “perdonami per gli sbagli che ho fatto e che farò. Provo almeno a spiegarteli.” 

E tutte queste parole hanno sempre la sua voce. 

Chiara.

La riconosci, ti sembra di risalire a bordo dell’Arca senza Noè, di riprendere da dove “non ci eravamo lasciati”.

Di specchiarti nelle ferite. Sue, di tutti, mie.

Adele si mette a nudo. 

Nasce in una famiglia povera, i Senzaniente.

Che poi si arricchisce ma non sa che farsene di tutta quella ricchezza e di tutte quelle parole nuove. 

Che si siede attorno a una tavola degli anni novanta, con Gigi Sabani e Magalli in tivù, e poi il silenzio e le ingombranti presenze sotto le sedie.

Il grembo paterno racconta di una generazione che con quelle presenze ci va ancora a letto, ci si sveglia, se le porta in giro, dentro.

Che fa fatica ad abbandonarle, tanto ci son da sempre, che sembrano quasi rassicuranti. Casa, forse.

E parla anche di un coraggio tutto nuovo a cui vien voglia di credere. 

Il grembo paterno è una lettera d’amore.

Chiara Gamberale apre continuamente strappi dolorosissimi e poi ci soffia sopra parole.

Ci mette un cerotto su questo tempo malato. 

Se ne prende cura. 

Finché diventa abitabile davvero.

Casa, sì. 

“Io sono convinto che la generazione dei nostri genitori non abbia sbagliato con noi figli perché sbagliava. Tutti sbagliamo. Ma ha sbagliato perché non ci ha aiutato a interpretare quegli errori”.

E all’inizio e alla fine, io, me lo sono abbracciato questo libro.

©Erika Carta

Effetti collaterali

Effetti collaterali

Due cose mi sono bastate per comprare “Effetti Collaterali”, la raccolta di sei storie niure di Rosario Russo, edito da Algra Editore per la collana Sicilia Niura. 

Una è stata sentire come parla del mare.

L’altra è che, alla Fiera del libro, mentre una voce di donna dal terapeutico accento siculo leggeva le sue parole, io le vedevo grazie ad Alosha (Giuseppe Marino), il danzastorie di Sicilia che le ballava.

Ma non solo. Oltre a questo, dentro la mia testa si creavano in contemporanea immagini come se stessi leggendo le pagine da me.

Non so se sono riuscita a spiegarmi ma è difficile, perché è stata un’esperienza pazzesca.

Il libro di carta che ho tra le mani è la prova tangibile di tutto questo. Una sorta di memorandum della bellezza che ho vissuto.

I suoi racconti di genere sono come voci, finite e compiute, di un unica grande storia.

E che storia è questa?

È la storia di una Sicilia così come immagino sia.

Fatta di persone. 

Piena di mare, di cultura, del profumo di limoni, caffè e cartocciata di melanzane

Attraversata dall’arte, dalle parole di illustri scrittori. Dalla mafia, dalla vita e dalla morte.

Come ho potuto leggere nell’appassionata postfazione di Salvo Sequenzia, “Russo si interroga mettendo l’accento sull’impossibilità di spiegare il perché delle ragioni del male e della morte”.

È vero. 

Eppure il suo modo di narrare ha qualcosa di leggero. Che attenzione, non vuol dire superficiale. Anzi. Trovo sia un valore aggiunto. Il buio mitigato dalla bellezza del mondo, dal senso di appartenenza al territorio, alla città di Acireale, alle sue storie magiche. 

Dalla voglia di dircelo.

Leggero ma di una profondità sentita e contagiosa.

La scrittura di Rosario è asciutta, pungente, misteriosa.

I personaggi sembrano raccontarsi da sé, sono schietti, perfettamente delineati dal proprio parlare, muoversi, pensare.

E leggendo, io ho trovato il mio personale comune denominatore di queste sei storie nere: l’amore.

Si cunta ca u pasturi 

assai vuleva beni 

a Galatea, e pi idda 

assai ni visti peni

ma n’da l’occhi si vardavunu

di veri ‘nnamurati  

©Erika Carta

Confessioni di un omosessuale a Émile Zola

Confessioni di un omosessuale a Émile Zola

“Vivo una vita fittizia e mostruosa, ma la mia esistenza non è quella di un privilegiato? Sono a tratti perfettamente felice e tranquillo, ma in altri momenti non lo sono affatto e vorrei qualcosa di nuovo e non so dove trovarlo. Ah! Perché la natura non ha dato all’uomo almeno dieci sensi? Cinque sono troppo pochi, a cosa possono servire? Dio! Quanto mi annoio.”

Non ci riconosciamo un po’ tutti in questa frase?

Io sì. 

Eterosessuale, donna di trentasei anni negli anni ‘20 del 2000. 

Eppure a scrivere questa frase è un ragazzo, omosessuale nel 1889.

Ma voglio smettere subito di parlare per “etichette”.

D’altronde colui che ha scritto le parole qui sopra non ha neppure nome. 

Lui è Anonimo e le sue sono le “Confessioni di un omosessuale a Émile Zola”.

Essendo io, sempre più a contatto con il mondo dei libri, dell’editoria, degli autori e dei festival letterari come la mia amata Fiera del libro di Argonautilus, sento spesso parlare di narrazione, di tecniche di narrazione. Di trame, schemi, regole per confezionare un romanzo che sia bello, ma anche appetibile come prodotto commerciale, giustamente.

La giovanissima casa editrice Wom, partner della Fiera, fa però qualcosa in più, a parer mio.

Lascia di stucco.

Questa, di Anonimo, è una lettera a cuor scoperto, pubblicata integralmente per la prima volta in italiano.

Scritta divinamente, si fa leggere in modo travolgente dall’inizio alla fine. Non c’è mistero, non c’è suspense, non una scaletta che abbia inizio, svolgimento e via discorrendo. 

Ad attrarre in modo così spudorato è la sincerità disarmante dell’autore. Una richiesta d’aiuto, la necessita irrefrenabile di mettere nero su bianco la natura dell’essere, la voglia di capire e insieme di spiegare.

Il soggetto, passatemi il termine, è un giovane italiano benestante, appassionato alla bellezza. 

“Mi piace tutto ciò che è bello, e quasi nulla, in ogni genere, è abbastanza bello ai miei occhi, tanto amo quel che è eccezionale, ricco ed elegante. Ho fabbricato con l’immaginazione palazzi più bello di tutti quelli che esistono, stracolmi di opere d’arte scelte tra tutti i capolavori del mondo intero. […] Ai miei occhi la bellezza rappresenta tutto, e tutti i vizi, tutti i crimini mi sembrano da lei giustificati.”

Egli scrive a Émile Zola offrendo se stesso e la sua esperienza personale come figura da aggiungere a “quella galleria di tipi che sono i Rougon-Macquart: un protagonista omosessuale”.

Ma la sua sincerità diviene un’arma a doppio taglio. È troppo, perfino per lo scrittore francese, che affida “Le Confessioni” al medico Geroge Saint-Paul, alias Dottor Laupts.

Così, questa lettera spassionata viene sì pubblicata ma come “caso di perversione sessuale”. 

Quello che arriva a noi oggi però è un libro di 148 pagine che “sono al contempo un romanzo, una testimonianza e un documento unici sul coraggio di un uomo che denuda la propria anima di fronte a una società che non riconosce le singolarità che la costituiscono. Una rivendicazione alla sovranità dei corpi, al dovere di goderne, alla tutela di ogni differenza – un messaggio ancora oggi di profonda attualità”.

Non saprei dirlo meglio.

(P.s.) Personalmente ho adorato l’irriverenza di Anonimo quando parla del suo ego.

“Mi sembra sempre di aver finito e trovo ogni volta qualcosa da raccontarle. Del resto mi piace talmente parlare della mia personcina che non smetterei di evocare la mia immagine guardandomi qui come in uno specchio. Non penso ci si possa mai stancare di parlare di se stessi e di studiarsi nei minimi dettagli, soprattutto se l’essere che la natura ha forgiato è tanto eccezionale quanto lo sono io. Penso davvero che dopo tutto ciò che le ho scritto dedurrà il resto del mio carattere, delle mie idee e anche delle persone che mi circondano, ma siccome questo mi diverte enormemente, vado avanti ancora per un poco, più per me che per lei”.

(P.p.s.) E non posso che sentirmi empaticamente risoluta insieme a lui quando infine dice: 

“Ah Signore! Sentirsi diverso rispetto a tutti gli altri è talvolta una soddisfazione. Oramai so ciò che sono e ciò che voglio. Tale sono nato, vivrò e tale morrò.”

©Erika Carta

Uccidiamo lo zio

Uccidiamo lo zio

“Una certa alchimia propria all’isola, li aveva trasformati in una coppia di bambini reali, di bambini magici”. 

Trovo sempre incredibili e, forse, i più ben riusciti, quei libri che partono sotto classificazione di un genere e che poi dalla prima all’ultima pagina prendono una strada diversa e contorta, senza che il lettore se ne renda davvero conto. 

È questa l’impressione che mi ha suscitato “Uccidiamo lo zio” di Rohan O’Grady.

Il titolo la dice lunga. 

Sia ben chiaro: ogni riga è impregnata di “black humor”, sembra un “giallo” alla vecchia maniera. Ma non soltanto. 

Tutto il romanzo, nel complesso, è come una vacanza estiva, pausa dall’inverno, una bolla dove si intessono rapporti sempre più fitti al ritmo tra il calar del sole e il sorgere d’ogni nuova alba.

Dove parlare di bugie, violenza psichica, ricatti morali e morte non è poi così tragico.

Strano vero?

Ma questo è l’effetto. 

Perché i protagonisti sono due marmocchi, Barnaby Gaunt e Christie Mcnab che per motivi diversi giungono su un’isola tranquilla, pacata e ordinata, dove non succede mai niente, come in tutte le isole, finché non arriva qualcuno a smuovere le acque, a togliere le  maschere, a mescolare le carte nel mazzo.

Eppure è la loro naturalezza bambina a rendere tutto così scorrevole e accettabile. Perfino quando si tratta di commettere un omicidio premeditato!

Il nemico? Uno zio cattivo che per primo e con una ferocia subdola e inaudita mira a eliminare l’ultimo ostacolo che lo divide da una cospicua eredità. 

La penna di O’Grady sviscera però nella quotidianità del racconto, tantissime sfaccettature della mente umana(e non solo), con particolare attenzione ai rapporti tra adulti e bambini, troppo spesso flebili voci mal interpretate, non udite o meglio… non ascoltate. 

Parrebbe un ritmo lento, sonnacchioso, invece ci si ritrova travolti da un’inspiegabile allegria e nello stesso tempo dalla difficoltà di interrompere la lettura, come spiati di continuo da un paio d’occhi sinistri. 

Divertente e magico, “Uccidiamo lo zio” è un romanzo del 1963. Rohan O’Grady è in realtà June Margaret O’Grady Skinner, scrittrice sottovalutata che nel 2010 prende nuova vita con la ristampa del romanzo da parte della casa editrice Bloomsbury e che a detta di Donna Tartt, era già allora “molto in anticipo sui tempi”.

Pubblicato per la prima volta in Italia, grazie alla WOM, (acronimo di Word Of Mouth) giovanissima casa editrice che incappa accuratamente su gioielli letterari e che, a parer mio, rende giustizia alla bellezza. Sia essa delle immagini, delle parole scritte o raccontate a voce. Dell’interazione.

E che a una velocità disarmante ha già piantato radici nel cuore di librai, lettori e sostenitori della cultura. Quelli pazzi.

Quelli che…

“stanno spesso in un cantuccio, all’ombra della propria lampada, assorti nel silenzio e in ascolto della cantilena della propria lettura, mentre fuori, la classe dei mercanti e dei guerrieri, degli arrivisti e dei capibanda, degli strilloni e degli arruffapopoli, fabbricatori di best-seller, si scannano e si divorano gli uni con gli altri, mentre l’ombra del tempo è sospesa da un punto e a capo”.

Da https://www.womedizioni.it/la-casa-editrice/

Erika Carta

Tre gocce d’acqua

Tre gocce d’acqua

“È questo che fanno gli scrittori, interpretano le crepe degli altri, frugano nei loro nascondigli, anche senza conoscerli. Anche quando se li inventano”. 

Ho letto il libro di Valentina D’Urbano in spiaggia, con la mia amica impegnata in un’altra lettura. Tante volte ci teniamo questa compagnia silenziosa.

A un certo punto mi ha parlato. La sua voce mi è arrivata da lontanissimo, concretizzandosi solo nelle ultime sillabe. Ho sollevato gli occhi dal libro, mi sono guardata intorno e ho visto lei, la sabbia, l’acqua salata, Pan di Zucchero.

Mi son resa conto di non essere lì, senza sapere più da quanto tempo, persa com’ero nel corridoio di una casa a Roma con Pietro, Celeste e Nadir.

Questo è quello che fa Valentina D’Urbano.

Ti prende, letteralmente. Ti porta via da ovunque tu sia, ti risucchia nelle pagine, invischia ogni parte di te alle sue parole, ti fruga dentro, rimestando le certezze dei valori che vai costruendo, continuamente.

Due famiglie. Generatrici, contenitrici e sfondo fuori fuoco. Tre figli. Tre fratelli. Tre persone. 

Tre gocce d’acqua a formare un’unica pozza.
Amore. Senza articoli davanti, senza etichette. 

Che di questo si tratta. 

Grande quanto una villa estiva con piscina, vissuto, con la ruggine alle ringhiere.
Aggiustato. 

Potente come un ideale, una ricerca, lo studio, un viaggio in Siria.

Ruvido, in bilico e silenzioso, ma sempre lì.

Pietro: bello, il fulcro di incontro. Unisce e divide. Intero, nonostante tutto. 

Celeste, che riflette negli altri le crepe sue. Più fragile dentro che fuori, nelle sue ossa di vetro. Riccio di mare.

Nadir, brutto e smilzo, che attraversa la vita senza spezzarsi, trascinando con sé chiunque incroci il suo cammino. Nadir, che aspetta. “Amore assoluto”.

La penna di Valentina D’Urbano è un “rotolare di pietre” e i suoi personaggi vivono una vita che potrebbe essere una qualunque ma tutti, tutti, hanno dentro una bestia. E chi non ce l’ha? Diverse, certo, con ritmi sonno/veglia, indipendenti da noi. 

Ma è sempre un riconoscersi a specchio, nelle sue parole dure, secche, affilate e così piene. 

Nelle sue persone, in tutte.

In Pietro, che con la sua saggezza delicata ci consiglia di prendere una posizione, di parlare.

In Celeste che per tanto, troppo tempo, non sa dire, non riesce a mettere in parole quello che sente, dandolo in pasto alla sua bestia.

E in Nadir, che parla sempre, pur senza dire nulla.

Come al solito, a fine lettura (difficile da chiamare “fine”, che era appena cominciata) il cuore rimane graffiato ma di nuovo più ricco.

Di quell’unione, che diventa familiare.

“I legami di sangue sono affilati, recidono qualsiasi altra cosa”.

Di gratitudine. 

“Sai da te quanto t’ho amata”.

Erika Carta