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Incubazione e Blessing way. Intrecci tra mondi.
In occasione della presentazione del libro “Hospiton” di Vindice Lecis (Condaghes edizioni) alla Libreria StoryTelling, ho sentito parlare del rito sacro nuragico dell’Incubazione. La descrizione che ne è stata data, di particolare senso evocativo e suggestione, mi ha riportato alla mente qualcosa di molto lontano. Ho verificato i miei ricordi, e ho trovato un collegamento decisamente intrigante.
L’Incubazione era un rituale magico di guarigione che utilizzava la valenza terapeutica del sonno. Un sonno indotto, dal sacerdote o sacerdotessa officiante, protratto per giorni, durante il quale il corpo dell’infermo veniva posto nei pressi di un edificio di pietra: i nuraghi complessi secondo alcuni, o le tombe dei giganti, secondo altri. (Alcuni studiosi considerano il rituale dell’Incubazione la prova storica della funzione simbolica dei Nuraghi n.d.r.).
Nel corso di questo lungo sonno, oltremodo debilitante, e probabilmente provocato mediante somministrazione continua di funghi e piante nepentacee di facile reperimento in Sardegna, l’infermo entrava in uno spazio sacro, a metà strada tra il terreno e l’ultraterreno, all’interno del quale avrebbe mutato la propria condizione e avrebbe potuto guarire dai mali del corpo e dello spirito.
Il rituale è descritto da testimoni illustri. Ne parla Aristotele, che citava l’esempio, per lui leggendario, dei Sardi come evocatori di un sonno così profondo da togliere all’uomo ogni coscienza del tempo.
Simplicio aggiunge che i Sardi andavano alle tombe degli eroi per dormirvi lunghi sonni indisturbati.
Tertulliano, lo definisce direttamente “opera dei demoni”.
Senza dilungarmi oltre in una materia complicata, controversa e molto articolata, riporto ora alcune frasi trascritte dagli episodi della serie tv The X-Files, precisamente Ep.01 e 02 della Stagione 3, dai titoli “The blessing way” e “Paper Clip”.
In questi episodi, un capo Navajo trova il corpo dell’agente dell’FBI Fox Mulder, che versa in fin di vita, e lo sottopone a un antico rituale tradizionale, che praticava la guarigione dell’infermo a mezzo di un sonno di rigenerazione e rinascita.
“…La morte era vicina. Secondo le nostre antiche tradizioni, mettemmo quattro ramoscelli di quercia sui rami della capanna, per chiamare il Popolo Sacro e comunicargli che si sarebbe tenuta una cerimonia, chiamata il Canto della Via della Benedizione. Ora solo il Popolo Sacro avrebbe potuto salvare la vita dell’uomo dell’FBI. Era nelle loro mani.”
[…]
Questo rituale di guarigione chiamato “la Via della Benedizione” ci è stato tramandato di nostri antenati. I suoi canti e le sue preghiere devono essere eseguiti come lo sono stati per secoli. O il Popolo Sacro non verrà. Da ragazzo ho osservato mio padre eseguire il rituale, e ho visto la sua magia curativa.
(Il corpo dell’uomo, nudo, viene deposto in una capanna, su un letto di frasche. Il suo volto segnato con polvere d’erbe. Vengono accesi dei fuochi e diffusi fumi per la capanna. Il capo Navajo si stende al suo fianco, anch’egli nudo)
Ma la mia paura per l’uomo dell’FBI era che il suo spirito non volesse essere guarito. Che volesse raggiungere lo spirito di suo padre, che non volesse più tornare nel mondo dei vivi.
Il suo corpo era stanco e debole e domandava riposo.
(Intona un canto sacro, sparge i fumi nella capanna con una grande piuma)
Se la lotta per continuare a vivere è troppo dura, o il desiderio di raggiungere gli antenati troppo forte, il corpo si arrenderà. Ma se il desiderio di ritornare alla vita è abbastanza intenso, il Popolo Sacro sarà misericordioso. I giorni e le notti ora sarebbero stati lunghi e difficili per l’uomo dell’FBI, ma il Popolo Sacro lo avrebbe aiutato a scegliere.
(Il corpo dell’uomo dell’FBI levita tra le stelle, circondato nel sonno, dalle sagome del Popolo Sacro. Durante il sonno incontra persone che nella vita sono stati importanti per lui. Gli raccontano verità che non conosceva. Gli parlano delle ragioni per continuare a vivere. Lo esortano a non guardare nell’abisso. A combattere i mostri dentro e fuori di sé, a sconfiggere la morte, per tornare a vivere e assolvere alla sua funzione nel mondo.)
“Per tre giorni l’uomo dell’FBI dormì, e continuò il canto della via e della benedizione. Il suo corpo bruciava come fuoco per la febbre, c’era da dubitare che sarebbe guarito… ma gli spiriti gli erano accanto. La notte del terzo giorno, aprì gli occhi e chiese dell’acqua.
Le abluzioni rituali vanno fatte fuori dalla capanna prima dell’alba. L’uomo era debole per il suo viaggio e non aveva voglia di parlare, ma come un sole nascente si sentiva in lui rinascere la vita. Comunque sarebbe occorso ancora del tempo perchè recuperasse le forze.”
La corrispondenza tra rituali è evidente.
Se si tratti di una coincidenza, della risposta a un bisogno così umano e ancestrale da avere trovato diffusione attraverso lo spazio e il tempo, o se infine si possano ipotizzare contaminazioni tra popoli di epoche e luoghi così remoti, lascio dire ai più esperti.
Fonti: Benati, 2009; Maria Dolores Turchi; The X-Files © 2017 FOX
L’archeologia nel Sulcis, una riflessione
Credo che un incontro, una presentazione o un evento abbiano un senso se quando torno a casa mi accorgo di avere imparato qualcosa di nuovo. E stasera, durante l’incontro con l’archeologo Nicola Dessì tenutosi presso la Libreria – Sala da Te Storytelling di Gonnesa, ho imparato molte cose.
Dell’enorme ricchezza archeologica del Sud Ovest della Sardegna (come Nicola Dessì ha spiegato la dizione Sulcis Iglesiente non è storica, ma politica, quindi fuorviante) ero ben a conoscenza. Nel solo territorio di Portoscuso si trovano svariati insediamenti nuragici, una necropoli punica risalente al VIII sec a.C. (necropoli di San Giorgio), circoli megalitici, sepolture in grotta e ancora altro. Tanto per fare un esempio.
Quello che non sapevo invece è che l’uso dell’ocra nei seppellimenti aveva valore simbolico oltre che “igienico-sanitario”.
Che esisteva un piccolo roditore chiamato Prolagus sardus, ormai estinto, che è stato fonte di sostentamento per generazioni intere di sardi preistorici e a cui quindi, in qualche modo, dobbiamo la nostra esistenza.
Che la Charonia Lampas non è solo una bella conchiglia in cui si sente il mare, ma era elemento funebre ricorrente tra i paleolitici, e veniva utilizzata come strumento musicale, presumibilmente nel corso dei riti di sepoltura.
Che esisteva un uccello, la grande Ottarda, Otis Tarda, ora estinta, le cui ossa sono state trovate affilate, appuntite, e utilizzate in epoca preistorica come ago per tatuaggi.
Che nel passaggio da cacciatori-raccoglitori a popoli stanziali del Neolitico, alcuni animali furono addomesticati, e altri invece si rinselvatichirono: il muflone dalla pecora, il cinghiale dal maiale, e dopo il 4000 a.C. il cervo.
Che la Sardegna faceva parte di una cultura ampia e diffusa attraverso il Mediterraneo, detta delle ceramiche cardiali, poiché il vasellame veniva decorato incidendolo con le conchiglie del tipo Cardium. E che la diffusione trasversale di questa cultura è la prova della fitta rete di commerci e interscambi di cui la Sardegna si trovava al centro. E si trovava al centro, per via delle miniere di Ossidiana di Monte Arci, uno dei soli quattro giacimenti del Mediterraneo, insieme a Palmarola, Lipari e Pantelleria. (Altra cosa che non sapevo).
Che le Domus de Janas censite a oggi in Sardegna, sono oltre 3500 e sono distribuite su tutto il territorio eccetto in Gallura, dove si trovano le Tombe in Tafone, ovvero grotticelle naturali e già pronte allo scopo; e che ci sono seppellimenti ipogei in numero ingente e molto vicino a noi, come Is Loccis a San Giovanni Suergiu, Is Salinas presso Masainas, a Carbonia addirittura in centro (Piazza Iglesias) per arrivare a Villaperuccio con il villaggio di Montessu, il più esteso per numero.
Che in fatto di megalitismo, c’era una volta una vallata megalitica, ricoperta di pietre erette nella piana tra Villaperuccio e Santadi e che vi sono stati ritrovamenti di crani dolicomorfi in quel di san Benedetto, frazione di Iglesias.
E ancora (…ma questo non l’ho imparato ieri) che spesso chi si occupa di tutti questi argomenti non sul campo ma da dietro la scrivania del suo ufficio, in forza di un titolo che è amministrativo dunque politico; e che dovrebbe rilasciare permessi, stanziare fondi, allocarli, e incentivare lo sviluppo di progetti di lavoro, ignora in modo pressoché totale ciò di cui si parla. Spesso non conosce nemmeno il territorio a cui si riferisce il suo mandato, e le esigenze che potrebbe racchiudere. E spesso si pone in atteggiamento di ostruzionismo puro senza una ragione comprensibile.
E infine che talvolta, chi ha la passione, la voglia e la competenza di fare, conoscere, scoprire, e condividere con gli altri quello che ha fatto, conosciuto e scoperto, riesce comunque ad andare avanti, nonostante le difficoltà.
(e.c.)
I souvenir degli Argonauti dietro una chiesa di Aosta
Più di 40 stele in pietra alte fino a tre metri scolpite 5 mila anni fa Gli autori erano partiti dalle coste turche alla ricerca di metalli
Goffi e rumorosi, i denti della ruspa agganciarono una grande lastra grigia, lunga, sagomata, spessa non più di dieci centimetri. Era il 1969, vicino alla piccola chiesa di Saint-Martin de Corleans, nella zona Ovest di Aosta. La lastra sembrava un uomo di pietra, forse un dio. In quell’anno in cui gli studenti infiammavano vie e piazze con gli slogan del maggio francese, dalla terra bruna di Aosta emerse l’area megalitica più grande d’Europa. Un ettaro in cui ancora sono custoditi segreti del terzo millennio avanti Cristo, in quel basso Neolitico in cui gli uomini partirono dalle sponde del Mar Nero per seguire rotte a ventaglio in tutta Europa, lungo i grandi fiumi, in cerca di metalli. Le ruspe si fermarono: avrebbero dovuto scavare le fondamenta di tre condomini. Fu rovina per l’impresa edile, meraviglia per gli archeologi. Le pale meccaniche vennero rimpiazzate da uomini con attrezzi molto più delicati per lo scavo. Li guidava un giovane studioso, Franco Mezzena, che non voleva credere ai suoi occhi.
Il primo scavo 47 anni fa
A giugno, 47 anni dopo quegli scavi leggeri, interrotti e ripresi, aprirà la grande struttura del museo che farà da tetto a quell’ettaro di storia. Gli uomini di pietra, stele alte fino a 3 metri, riprenderanno il loro posto. Statue erette in un pantheon da una civiltà ancora de decifrare, capace di navigare, di seguire il corso dei fiumi e lasciare i monumenti a memoria di una cultura diffusa in tutta Europa. Dalla Crimea all’Ucraina, dal Mar Nero, dal Caucaso fino alle rive di Rodano, Reno, Danubio. E poi nelle valli alpine, vie obbligate per valicare la grande cerniera di montagne. Fra queste quella della Dora Baltea. Quella civiltà resta avvolta in una nube di mistero. Sappiamo che arrivò in mezzo alle montagne cinquemila anni fa. E dopo un millennio, gli uomini che la rimpiazzarono usarono quei principi di pietra o dei per costruire un cimitero, tombe gigantesche, una dalla forma di prua di nave. L’area megalitica di Corleans presuppone la presenza, nella piana della Dora, di una città importante: un ettaro dedicato ai riti dei vivi, poi alle sepolture. Le pagine di storia scritta in strati di terra sovrapposti, mostrano arature agricole e sacre, i riti della semina dei denti che possono ricondurre al mito di Eracle, oltre 40 stele antropomorfe, allineate in un viale monumentale, e una fila di 24 pali orientati con le stelle: da Orione all’Orsa Maggiore, che è la costellazione-indirizzo per la Valle d’Aosta ai tempi dei Celti. Importante per gli studi: le stele di questo tipo sono sempre state trovate in modo sporadico, mai in un sito così vasto.
Una leggenda cittadina
Aosta scopre che una sua leggenda potrebbe essere testimonianza di una realtà antica. Fra i suoi nomi pre romani c’è Cordelia. Ne parlò lo storico Jean-Baptiste De Tillier, segretario del Ducato di Aosta nel Settecento. Cordele esiste ancora oggi, è sulla costa turca del Mar Nero, nell’antica Anatolia. Da lì salparono gli Argonauti, Giasone e lo stesso Eracle. Potrebbero essere stati la scorta armata degli scienziati che cercavano metalli nel Neolitico. «Questa era la tecnologia nuova all’epoca», ricorda Mezzena. Ipotesi affascinante, forse l’unica che spiega il popolo nomade che risalì l’Europa lasciando gli uomini di pietra. Gli scalpelli hanno inciso vesti di fibre tessute o intrecciate, con rombi e quadrati bicolore, di uomini, principi o dei in armi: pugnali e scuri.
Fonte: http://www.lastampa.it/2016/02/20/italia/cronache/i-souvenir-degli-argonauti-dietro-una-chiesa-di-aosta-UcDWRK0DUyIFvmab2UElzN/pagina.html
Le carte celesti degli Egizi servivano a navigare tra le stelle
Gli antichi Egizi dovevano aspettarsi un aldilà denso di impegni. Migliaia di anni fa dipinsero grandi bellissimi occhi all’esterno dei loro sarcofagi, per continuare vedere che cosa succedeva nel mondo. Ma alcuni esponenti della nobiltà della città di Asyut nell’Alto Egitto avevano addirittura tabelle dettagliate sui movimenti delle stelle, dipinti all’interno – e non all’esterno – del sarcofago. Sembrerebbe trattarsi di tabelle orarie o veri e proprio fogli di calcolo dedicati al percorso celeste di alcune specifiche stelle, dalla levata eliaca al tramonto oltre l’orizzonte. E per essere tabelle orarie, erano anche bellissime.
Gli studiosi hanno creduto a lungo che questo tipo di carte stellari rappresentasse una forma molto antica di orologio, in grado di segnare il tempo anche in assenza di sole, cosa che poteva essere molto importante per lo svolgimento di rituali e pratiche religiose notturni. Ma Sarah Symons della McMaster University in Ontario ritiene più probabile che queste tabelle orarie rappresentino in realtà una sorta di mappa destinata ai defunti per consentire loro di navigare nel cielo, dove avrebbero vissuto per sempre come stelle, dopo la morte. Le sue conclusioni sono basate su anni di ricerche in antiche credenze egizie, approfondite indagini sulle 27 carte stellari conosciute e su molti altri frammenti sparsi per il mondo e sull’utilizzo di un software in grado di ricreare il cielo notturno così come si presentava oltre 4000 anni fa, sopra le terre del Nilo. La Symons e la sua co-autrice Elizabeth Tasker della Hokkaido University in Giappone descrivono il lavoro nel numero di ottobre di Scientific American.
L’esistenza di mappe stellare presso gli antichi egizi è nota da decenni, come Symons e Tasker scrivono nel loro articolo “Le stelle dei morti“. Ma le studiose richiamano l’attenzione sui particolari. Una tavola completa “è divisa in quarti da una striscia orizzontale e una verticale. La striscia orizzontale contiene un verso tratto da un testo religioso che dedica un’offerta a un certo numero di divinità egizie, mentre la striscia verticale contiene quattro raffigurazioni pittoriche delle stesse divinità”.
Lungo la parte superiore della tavola, si trova rappresentato l’antico calendario civile egiziano, in cui il mese era composto da 3 settimane di 10 giorni, con 12 mesi da 30 giorni per totali 360 giorni. I 5 giorni rimanenti alla fine dell’anno venivano inseriti in una colonna specifica, alla fine della tavola.
Ogni colonna di nomi delle stelle (scritti in geroglifico) era composta da 12 righe, con ogni cella che indicava il sorgere (o forse il tramontare) di una particolare stella sopra l’orizzonte.
All’esame dettagliato, la magia di queste tavole si anima ed è come trovarsi di fronte a un autentico programma di navigazione celeste, dipinto sul legno millenni or sono.
Con il permesso speciale della Museo dell’Università di Tubinga, in Germania, la seguente galleria fotografica mostra una delle tavole stellari stella meglio conservate dell’antico Egitto, proveniente dalla tomba di Idy di Asyut.
Fonte originale:
http://www.scientificamerican.com/article/surprising-new-finds-from-ancient-egyptian-star-charts-slide-show1/
15.09.2015
In mostra a #Uri i bronzetti comprati all’asta dai cittadini
Fonte: La Nuova Sardegna, 11 settembre 2015
Il 19 settembre per la “Festa della civiltà nuragica” esposizione dei reperti recuperati con una raccolta di fondi sui social network
URI. «Bentornati a casa!» è stato lo slogan che ha concluso una piccola ma epocale azione di volontariato e coscienza civica, l’acquisto da parte di semplici cittadini di quattro bronzetti nuragici messi all’asta lo scorso giugno a Londra.
I bronzetti – che sono stati presentati ieri, giovedì 10, per la prima volta a Cagliari – saranno il 19 settembre a Uri per la “Festa della civiltà nuragica”.
«In quell’occasione speriamo di poter esporre anche delle riproduzioni tridimensionali che stiamo realizzando grazie al contributo di Sardegna Ricerca. Oggetti che potranno essere visti e maneggiati dai bambini e da tutti i curiosi, perché è attraverso la conoscenza che si crea la tutela e la consapevolezza che il patrimonio appartiene ai cittadini» dice Nicola Manca, presidente della fondazione Nurnet che con il gruppo Archeologia della Sardegna è stata in prima linea nel recupero dei reperti nuragici.
Due gruppi di volontariato con un grandissimo seguito sui social che descrivono i sardi interessati alla loro storia antichissima come non mai.