L’implosivo

L’implosivo


Quando si conosce un autore e il suo libro geniale, potrebbe presentarsi qualche difficoltà nello scrollarselo di dosso. 

(E dove sta scritto che bisogna farlo?)

Perché, diciamolo: il “Don Chisciotte in Sicilia”, di Roberto Mandracchia… è un libro geniale. 

E infatti lo abbiamo detto e continueremo a farlo.

Ma.

Il cinque luglio di questa estate è arrivato “L’implosivo”. 

Dalla copertina, illustrazione di Patrizio Marini, alla storia zen di quattro righe piena di realtà, dalla casa editrice Minimum Fax a simboli che evocano altri simboli e nascondono aneddoti anche migliori, non posso che esserne conquistata. Subito. Appena lo vedo, appena lo compro, appena lo sfoglio. 

Poi.

Arriva lo smarrimento. 

Per una cinquantina di pagine cerco qualcosa di passato nel posto sbagliato.

E me ne rendo conto dal confronto con i miei amici e lettori attenti. (Ah, la meraviglia di parlare dei libri.)

Allora cambio chiave di lettura. E capisco.

Capisco che mentre Lillo Vasile, la solitudine ce l’aveva dentro… Carmine Stanga ce l’ha fuori. 

Cercai sul vocabolario la parola implosivo […] e scoprii che in verità esisteva e si riferiva in senso fisico all’implosione che, al contrario dell’esplosione, succedeva dall’esterno verso l’interno, […] ma c’era pure un senso psicologico: la sensazione che un individuo ha di avere il vuoto dentro, e la paura che il mondo possa invaderlo e cancellare la sua identità.”

Che l’empatia, con Lillo Vasile, è immediata ed è una coccola, tanto per lui quanto per chi ne legge le gesta.

Carmine Stanga invece, è il male.

Ma l’empatia arriva anche per lui, all’improvviso, in momenti che non ti aspetti, come questo:

Mi ero messo su uno scoglio a guardare il mare che si muoveva calmo calmo, con un suono calmo calmo preciso a quando strofini da una parte all’altra il dito su un foglio, sotto la luna e questo cielo nero che formicolava di stelle. Insomma me ne sono stato lì per un sacco e mezzo di tempo e quasi mi stavo dimenticando pure chi ero io, quando ho sentito una presenza alle mie spalle ed era lei. C’era un odore di pulito e poi pareva che tutte le cose intorno erano state create giusto per noi due e basta e giusto giusto in quel momento. La cosa che ricordo ogni giorno è che la Pillicusa, senza dire niente, così vestita com’era, s’è tuffata dallo scoglio accanto a quello dove ero seduto e poi è venuta fuori dall’acqua con la testa e ha guardato nella mia direzione. E io lo so come m’ha guardato.”,

mentre leggi e non te ne accorgi. 

Poi torna brusca la realtà, la violenza, il male appunto.

E ti disturba da morire, non avresti voluto provarla e dimenticare per un attimo di chi e di cosa stai leggendo.

Ma Roberto Mandracchia è bravo e sa trasmettere potentemente l’una e l’altra cosa.

E scrive pagine come fossero giorni in un casale sperduto di campagna. 

Conti insieme a lui le albe, i pranzi, le ore buie della notte, i dolori, le pastiglie per la prostata, i silenzi.

Leggi i pizzini, ascolti i ricordi, vivi l’azione, così, dal nulla.

E poi finisce, come doveva finire.

E poi, c’è Cagnolazzo. C’è Cagnolazzo?

E vorresti saperne di più. Ma di più non c’è e ti accorgi che è giusto così.

Allora.

L’ho ritrovato il Mandracchia che anche con umorismo dice la realtà ed è un’altra volta conquista, un’altra nuova, bella lettura. 

Un’altra volta, diversamente genio. 

© Erika Carta