Mi viene da dire “La conosco di vista” come si dice per una persona che si vede spesso, magari nella propria città, senza averci mai avuto a che fare.
Ecco, Annie Ernaux l’ho sempre vista tra gli scaffali della libreria, ne ho sentito parlare da una libraia appassionata, insieme ai suoi lettori e lettrici.
Qualche pagina condivisa, frasi, parole.
Di recentissimo è stata insignita del Premio Nobel per la Letteratura 2022.
Se questo è il motivo che ha spinto la mia curiosità a incrociare la sua strada, ben venga.
Ma so bene che nulla, coi libri, accade per caso.
Il tempo, coi libri, assume la giusta dimensione che troppo spesso gli neghiamo.
Mi si è presentata, in una di queste mattine soleggiate fuori e brumose dentro, con la copertina color vino e per titolo un’emozione: La vergogna.
“L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla.”
Ho iniziato a leggerlo per strada, mentre camminavo.
Anche l’urgenza mi è familiare.
Annie racconta di una domenica di giugno in famiglia. Era il 1952. Un episodio che fa da spartiacque tra l’innocenza bambina di prendere per unico tutto quello che la circonda e la realtà.
Nel suo caso macchiata dalla vergogna.
Non soltanto la realtà di quel giorno ma anche di tutti quelli a venire.
Ciò che mi ha sorpresa è il modo apparentemente distaccato che ha di narrare.
Nelle prime pagine racconta l’episodio. Lo scrive, lo ferma nero su bianco, così come è vivo nella sua mente. Un fatto.
Poi non ne parla più.
Ma è dappertutto.
E quello che ha sotto pelle è tutta un’altra storia.
La si può leggere mentre descrive il posto in cui vive, le strade, gli abitanti. Gli altri.
Il bar-drogheria dove lavorano i genitori. Parla di loro. Racconta della scuola privata, di come era organizzata. Di fotografie, religione, di un viaggio.
“Quello che mi importa, invece, è ritrovare le parole attraverso le quali pensavo me stessa e il mondo circostante. Stabilire ciò che per me era normale e ciò che era inammissibile, persino in immaginabile. Ma la donna che sono nel ‘95 è incapace di ricollocarsi nella ragazzina del ‘52 che conosceva soltanto la sua cittadina, la sua famiglia, la sua scuola privata, e aveva a sua disposizione un vocabolario ridotto. E, davanti a lei, l’immensità del tempo da vivere. Non esiste un’autentica memoria di sé.”
Ed è incredibile come contestualizzando prenda le distanze e insieme le annulli.
Ogni pagina aperta è una ferita sanguinolenta; una lotta tra futuro e memoria. Ogni parola, un tentativo di cura.
In un libro di quell’anno, “La guerra del soldato Tamura”, Shohei Ooka scrive:
“Forse tutto ciò è solo un’illusione, ma non posso mettere in dubbio quello che ho provato. Anche il ricordo è un’esperienza.”
Sopra a tutto c’è un aspetto che mi ha colpita, che arriva esattamente quando e dove deve arrivare.
Non saprei spiegarlo meglio di lei, scrittrice, premio Nobel, ragazzina nel ‘52, donna nel ‘95.
Annie.
“Nulla può cambiare il fatto che le cose siano andate così, che io abbia provato ciò che ho provato, quella pesantezza, quella nullificazione. La vergogna è la verità ultima. È lei che unisce la ragazza del ‘52 alla donna che sta scrivendo.”