Breve storia della letteratura rosa

Breve storia della letteratura rosa

C’è stato un periodo, quand’ero più che adolescente ormai, in cui ogni sabato mattina mi recavo nella biblioteca della città, con mia zia, a fare incetta di libri per la settimana. 

Erano anni sospesi, in cui tutto poteva essere (o non essere, a onor del vero).

Sorelle gemelle di “Bridjet Jones” e con “I love shopping” di Sophie Kinsella, siamo entrate in un mondo di cui, poi, abbiamo cercato infinite repliche.

Sognare, attraversare ostacoli e imprevisti  con un pizzico di ironia a fior di labbra e arrivare al lieto fine con il cuoregonfio d’amore e speranza. Appagate dalle parole.

Ricordo una collana in particolare, la “Red Dress Ink”, di cuinessun titolo s’è fatto salvo dai miei avidi occhi.

E oggi, leggerne su “Breve storia della letteratura rosa”, mi ha fatto venire i brividi, di quelli che fanno riaffiorare ricordi di un tempo andato. 

Il libro, edito dalla casa editrice umbra, Graphe.it, fa partedella collana “Parva”, dedicata ai saggi brevi.

“Parva scintilla magnum saepe excitat incedium”.

“Una piccola scintilla è spesso causa di un grande incendio”.

Libri gioiello, così mi piace pensarli.

Soprattutto, per quanto mi riguarda, se si parla di letteratura.

Scintilla che, davvero, genera un incendio di sapere.

Così, Patrizia Violi, giornalista che si occupa di attualità, costume e psicologia, ci racconta tra le pagine il percorso di questa letteratura, a partire dal colore: il rosa. 

Tipicamente associato alle donne, é un colore rassicurante, che semplifica la realtà, lenendo un po’ di quella parte cinica e dolorosa della quotidianità.

Come un analgesico.

Il suo è un excursus che parte dal 1740, nel mondo di “Pamela, o la virtù premiata” (Samuel Richardson) per arrivare ai giorni nostri, con “After” (Anna Todd).

E nel mezzo, lo spaccato di una condizione, quella femminile, in perenne evoluzione che mai, si ferma ad accettarepassivamente le circostanze esterne, diventando così continua fonte di ispirazione per scrittrici e scrittori del genere. 

Che siano i tempi del patriarcato, del ventennio fascista o l’era del consumismo; che la critica continui a trovarsi in dissensocon il pubblico, “il rosa è duttile, non sparisce e si rigenera”, come scrive la Violi.

E d’altronde, altro non fa se non espletare il compito della letteratura, di qualunque colore sia e a chiunque sia rivolta: essere lente di ingrandimento sulla società, offrire un’altraprospettiva, una diversa angolazione, un nuovo modo di vedere le cose.

Con il tempo, il mio modo di leggere è cambiato, eppuretalvolta sento la necessità di tornarci, al rosa, o di cercarlo trale righe in qualunque libro o nelle immagini davanti alloschermo, in film e serie tv.

È un po’ come guardarsi allo specchio, riconoscersi e allostesso tempo cercare di sbirciare oltre.

Leggere questa breve storia è stato come fare un tuffonell’ottimismo, che di questi tempi se ne sente un gran bisogno.

Come scartare un cioccolatino e gustarlo in un solo boccone.

Squisito.

E con un retrogusto piccante:

“Good girls go to heaven, bad girls go everywhere”.

©Erika Carta

La misura eroica

La misura eroica

“Indicibili sono i colori dell’acqua, perché non si può chiamare per nome  la luce che l’accende di giorno – trasparente, blu, cristallo, perla – e la spegne di notte – nero, vino, luna”.

Il mare. 

Così lo descrive Andrea Marcolongo nelle prime pagine de “La misura eroica”, e così lo ritrovo ogni volta che ho il primordiale bisogno di andare a guardarlo, figlia della mia isola.

Lo vedo perfino ad occhi chiusi o quando bene aperti, ne leggo.

In queste duecento pagine circa, la Marcolongo racconta “il coraggio che spinge gli uomini ad amare” (nel senso più ampio del termine, aggiungo io) e lo fa attraverso due storie, amalgamate tra loro con tenera maestria.

Ogni capitolo si apre con un breve pensiero tratto dal manuale in lingua inglese del 1942: “How to abandon ship”, dove l’autrice scorge l’importanza di resistere ai naufragi della vita, piuttosto che fuggire, abbandonare.

La tua nave è progettata per resistere alle tempeste più di quanto lo sia tu, marinaio”.

Il passo poi è lasciato a una grande storia, un mito greco che risale all’età micenea.

Racconta di Giasone, giovane ragazzo figlio di Esone che fu re della città di Iolco, che pur di sottrarre il trono al malvagio zio, Pelia, accetta la sua sfida: “Và alla ricerca del vello d’oro. Vediamo se ci riesci”. 

Era bastato questo a muovere, nella profondità dell’anima, la sua voglia di partire, tralasciare la sicurezza della terra madre per cercare altrove e tornare, dal viaggio, diverso. 

Altri cinquanta giovani vollero seguirlo nell’impresa.

D’altronde è a noi chiaro che superare quella soglia significava crescere, maturare, ad ogni modo. Muoversi.

E, come un Peter Pan al contrario, restare fermi avrebbe significato rimanere eternamente giovani, ignari. 

Quei ragazzi pronti a salpare furono per sempre chiamati con il nome della nave cui avevano scelto di appartenere: Argonauti”.

[…] Fu allora che, per la prima volta nella storia dell’uomo, una nave, scivolò dentro il mare […]

La nave era femmina e sotto la prua, nella chiglia, aveva intagliato il viso di Atena, colei che l’aveva costruita, non certo perché rimanesse ferma in porto.

“La nave Argo era bellissima. Argo era stata fatta per navigare verso l’ignoto, e poi tornare a casa”.

Questa frase mi riporta inevitabilmente a un’altra, nata dalla penna di T.S. Elliot:

“Non smetteremo mai di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare, ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”. Motto, se così vogliamo chiamarlo, che mi è entrato dentro radicando ancora più profondamente la consapevolezza che ogni passo è, a sé, un viaggio. E che mai torneremo uguali a come siamo partiti. Si tratta di prospettive.

“Nel mezzo c’è tutto il resto, e tutto il resto è giorno dopo giorno…” 

Lo so, questo articolo è un continuo richiamo, da una citazione a un’altra. Ma è la mia spirale emotiva, piena e aperta.

Non credo di fare spoiler se dico che Giasone tornò eccome nella sua Tessaglia, con il vello d’oro, mutato per sempre nel profondo del suo essere, da ogni avventura vissuta per mare e nelle altre isole, con le persone. Insieme a Medea.

La misura eroica era data dall’esperienza di superare se stessi, non dal risultato”.

E certo, nulla sarebbe stato possibile se non fosse stato per l’amore: la più grande forza, unica e necessaria a muovere ogni cosa. 

E a chi, stolto e apatico dice è impossibile, la Marcolongo risponde:

“Se solo non ci dimenticassimo che un tempo siamo stati Argonauti cui nulla importava se tutti dicevano è impossibile, per noi non solo era possibile, ma doveroso. Avevamo urgenza, bisogno di provare per poi vivere”.

D’altronde “fallire non significa non inciampare mai, ma scegliere di restare a terra”.

Questo mito senza tempo ha incantato gli uomini di ogni epoca. 

Nel 1382 un ordine segreto di rivoluzionari anarchici comparve a Napoli facendosi chiamare gli Argonauti di San Nicola.

Nel 1945 la conferenza di Yalta che pose fine alla seconda guerra mondiale fu inizialmente denominata La conferenza degli Argonauti.

Nello sport il club dì football con il nome originario più antico nel Nordamerica fu coniato nel 1873: i Toronto Argonauts.

Diverse navi hanno preso ispirazione dalla prima Argo, per i loro nomi, compreso il primo sottomarino della storia.

E poi ci siamo noi. 

“Come sinonimo di squadra, di solidarietà e di coesione tra amici”.

A bordo della nostra nave che solca questo mare sempre mutevole,  un po’ Argo un po’ Nautilus

Ogni giorno, a partire dalle vele srotolate di Argo, ci mettiamo per mare affrontando venti e tempeste per arrivare a riva, ovvero per diventare diversi da come siamo partiti, superando la linea d’ombra e varcando la nostra soglia.

[…] Non stai forse navigando anche tu, come tutti noi, umani e contemporanei Argonauti , attraverso i mari che ci separano dall’essere grandi, a qualunque età?

Mercoledì di Argonautilus – Dentro la borsa

Mercoledì di Argonautilus – Dentro la borsa

Aveva bisogno di pensare a qualcosa di bello. Era un trucco che aveva inventato da bambina, chiusa nella sua stanza, per scacciare la tristezza […]

Allora prendeva il suo diario e raccontava qualche episodio appena vissuto, sottolineando solo le parti belle”.

È come vedere il “bicchiere mezzo pieno”, no? Anche se, in questo caso, posso esprimere con certezza che non si tratti di un bicchiere, ma di una borsa, “un insieme di velluto rosso, orbace, lana, pelle e broccato che, nei toni del nero con i ricami bianchi, ricordavano i tappeti sardi”, e di tutto quello che c’è dentro.

Ed è veramente tanto, per stare chiuso lì, stipato. Le cerniere non chiudono, il tessuto si strama, l’involucro si deforma.

È così che questo contenuto si riversa in parole, tra le pagine di un libro.

“Dentro la borsa” di Francesca Spanu.

Di cosa parla? 

“Di aborto”, ho sentito dire qualche tempo fa.

“Di un bambino che si è perso”, dice Ele , con attenta e sensibile interpretazione filtrata dai suoi cinque anni, che disegnava mentre l’autrice si raccontava, alla presentazione. 

E io, prima ancora di addentrarmi tra le righe che mi avrebbero svelato le vite di Lidia e Cristina, ho capito che non sarebbe stato solo questo.

Ho sentito due parole che mi sono bastate per intraprendere questo viaggio: amore e libertà.

Due aspetti imprescindibili uno dall’altro, aridi se presi singolarmente, rigogliosi se tenuti assieme dal filo della consapevolezza.

Si tratta di scelte. Subite, sepolte sotto strati di apparenza, egoiste, mascherate. 

E poi di scelte compiute. Difficili, sofferte, d’amore, protettive, altruiste, libere… CONSAPEVOLI. 

Non per questo senza conseguenze, tutt’altro. 

Non stare ferma, reagisci. Utilizza il danno che hai subito come risorsa, è questa l’unica strada. Usa questa sofferenza per capire cosa vuoi davvero dalla vita. Sì perché devo dirtelo, finora hai vissuto la vita che altri volevano per te. Approfitta di questo dramma per essere ciò che vuoi essere tu”.

Piedi inchiodati al fondo, piedi che raschiano fino a staccarsi. E poi spinte. Verso l’alto, verso fuori, alla luce… proprio come venire al mondo, di nuovo. 

Tenere la propria vita tra le mani, guardarla rinascere, incedere, divenire. 

È questo che io ci ho letto. Riflessiva, ma emozionata, vorace nello scorrere le pagine, così come divoro i giorni davanti a me. 

“Sii contenta di essere libera, libera di cambiare idea e andare dove desideri, molte persone non lo sono e non sono in grado di combattere per la cosa più importante, il diritto di essere liberi”.

©Erika Carta

“La rilegatrice di storie perdute” – Recensione.

“La rilegatrice di storie perdute” – Recensione.

Reduci dal tour in cinque tappe nei comuni partner della Fiera del Libro di Iglesias (Santadi, Gonnesa, Iglesias, Portoscuso e Carbonia) con Cristina Caboni e il suo ultimo romanzo “La rilegatrice di storie perdute”(Garzanti Libri), (clicca per la photogallery), pubblichiamo la recensione del libro, scritta della nostra socia Erika Carta già correlatrice in occasione della presentazione in Sala Branca a Iglesias.

 

“Non c’è nulla che ti possa rendere libera quanto un libro. Nelle sue pagine troverai sempre uno spazio. Sarai tu poi a decidere come utilizzarlo.”

Come un messaggio lasciato dentro una bottiglia naviga tra gli oceani. Così, le pagine di un libro antico traghettano la storia di coraggio di Clarice Von Harmel attraverso le onde del tempo, giungendo fra le mani di Sofia Bauer.

Vienna, 1804. Sotto il cielo grigio di questa città, inizia il viaggio di una Clarice bambina che già custodisce dentro di sé la donna che diverrà. Il fascino che i libri sprigionano nella sua vita, con tutto ciò che gravita intorno a essi: la lettura, la letteratura e un’arte come quella della rilegatura, consentita, a quei tempi, solo agli uomini. Fare propri gli ideali di un autore, Chrisitan Philippe Fohr, che scrive di uguaglianza, istruzione e futuro. Coltivarli con amore, coraggio e ribellione. Spiegare le ali e spiccare il volo come un uccellino. E fare in modo che la forza di questo messaggio non venga perduta.

Roma, ai giorni nostri. Lungo il torbido fondale del Tevere, tra la maestosità di Villa Borghese e la magica follia del quartiere di Coppedè, muove i suoi passi Sofia. Una donna che ha perso di vista sé stessa, creandosi una prigione dentro un matrimonio senza amore. Fino al giorno in cui si imbatte tra le righe della storia perduta di Clarice Von Harmel. Un filo che lega le donne a distanza di due secoli. Pagine che fanno da specchio, parole che creano una scintilla. E con l’aiuto del misterioso Tomaso Leoni, prende vita una ricerca dai risvolti inaspettati.

Un romanzo intriso dell’odore di carta antica e copertine di cuoio, che porta brezza fresca di libertà. Una Cristina Caboni che con la sua empatia ascolta le voci di donne che non si arrendono, che riconoscono le occasioni di riscatto e si aggrappano a esse. Alle donne che lottano con determinazione per affermarsi nel mondo.

©Erika Carta