“Breve storia della letteratura rosa”, di Patrizia Violi, edito da Graphe.it per la collana Parva, è un delizioso saggio, il cui tema è preannunciato dalla copertina di un elegante rosa corallo: la narrativa rivolta alle donne, a partire dai suoi albori nella metà del XVIII secolo, fino alle fan fiction di oggi.
Non deve fuorviare il titolo, né deve far cadere nell’atavico pregiudizio che considera questi romanzi dedicati a signore e signorine un genere letterario inferiore. In realtà grazie alle pagine leggere e piacevoli di Patrizia Violi si scopre che la letteratura “rosa”, lungi dall’essere di serie B, rispecchia i cambiamenti della società: attraverso i diversi modelli femminili proposti in questi romanzi si scoprono i sogni, le ambizioni, le discriminazioni, ma anche le conquiste che le donne sono state capaci di ottenere attraverso i secoli.
Quindi è solo in apparenza una letteratura di evasione e di consumo, visti e considerati i numerosi best seller che appartengono al genere “rosa”. Ma anche emblema di un mondo complesso in continua evoluzione, come quello della realtà femminile all’interno della società.
E anche se sono cambiate le priorità delle donne, anche se oggi possono essere manager in carriera, single per scelta, oppure libere di vivere la loro affettività senza (troppi) pregiudizi, c’è un elemento che continua ad affascinare tutte: la possibilità di (almeno) sognare l’amore. E questo è il segreto per un genere letterario a torto bistrattato, ma dagli insospettabili risvolti.
“Non propriamente un libro di cucina, nemmeno un libro di memorie, eppure chiamarlo semplicemente ‘saggio’ non gli renderebbe giustizia”.
Così si legge nella quarta della coloratissima copertina di questo volumetto, edito da Graphe.it per la collana Parva, tradotto finalmente in italiano, trentacinque anni dopo la sua prima uscita e corredato di disegni autentici dell’autore.
Cos’è dunque Teoria e Pratica di pane e pomodoro di Leopoldo Pomés?
È un colloquio garbato e ironico in cui il fotografo e scrittore di Barcellona racconta ai suoi lettori cosa ha rappresentato per lui questo piatto poverissimo, tipico di tutta la cucina mediterranea, ma di quella catalana ancora di più.
È una memoria viva e piena di ricordi di infanzia personali, ma anche una rivendicazione di orgoglio nazionale per un popolo che, forse per le sue vicende storiche, si è ritagliato nel panorama europeo e mondiale un profilo basso, e a quello si attiene.
È il richiamo antichissimo che il cibo genuino esercita sull’uomo, riportandolo alle sue radici, al suo legame con la terra e con gli affetti più veri, come è testimoniato anche dalla prefazione all’edizione italiana scritta da Juliet Pomés Leiz, figlia di Leopoldo stesso.
Un testo intimo, lieve e profondo insieme, che leggerete d’un fiato e che lascerete all’ultima pagina solo per andare in cucina a prepararvi una sana, autentica fetta di pa amb tomàquet.
*Claudia Aloisi nasce nel 1974 a Forlì, dove vive occupandosi della sua famiglia, del suo giardino, di scuola e, ovviamente, di scrittura. Laureata in Lettere Classiche all’Università di Bologna, con una tesi in Storia Romana, si diploma anche in Scienze Religiose, discutendo una tesi di Antropologia Filosofica. Appassionata di storia, è innamorata della Sardegna e della sua gente, e sogna di vivere nell’Isola, che immagina come il suo “buen retiro”. Nel 2019 è uscito il suo primo romanzo (edito): “Flavia’s end” per Condaghes Edizioni.
È bello tenere tra le mani “Effetti Collaterali”, nel formato compatto che Algra Editore ha scelto per la collana “SiciliaNiura”. Sono “Sei racconti di genere in Sicilia”, come si precisa sulla copertina. Ed è una dichiarazione d’intenti da cui il lettore non sarà tradito.
Rosario Russo esprime l’amore per i suoi luoghi d’origine, con una narrativa lucida e priva di compiacimenti. Onesto, a tratti impietoso, lascia che la bellezza della sua isola emerga da sola, dipingendo scorci di mare o centri storici impreziositi dal barocco. Lascia che il mistero conturbante della storia di Sicilia, che affonda nei miti dell’origine del mondo, sorprenda il lettore mentre si trova avvinto dai misteri da risolvere. Perché non dimentichiamo, “Effetti Collaterali” è crime fiction, che scivola con leggerezza dal giallo al poliziesco, al noir. E mentre si svolgono le indagini, Ace e Galatea tornano dall’inizio dei tempi a raccontare la bellezza dimenticata dei luoghi del loro amore impossibile; o una misteriosa filastrocca, scritta su cartoline dal passato, piange le bellezze perdute dei luoghi e denuncia scelte urbanistiche prive d’amore. E c’è ancora spazio per una giovane vittima della mafia, e per ritrovare il commissario Traversa, già protagonista del romanzo “Quattordici Spine”, destinato a diventare un personaggio seriale nella produzione dell’autore, per una sana critica sociale e per ricordare antiche tradizioni. Il tutto con stile asciutto e fluido, pervaso a tratti di ironia amara; con personaggi ben disegnati, trame credibili, attenta costruzione delle ambientazioni, che conducono il lettore alla fine del libro, lasciandolo con il desiderio di leggere ancora.
Rosario Russo, classe 1986, di Acireale è uno dei curatori della collana “Sicilia Niura” per Algra Edizioni.
Graphe.it si conferma editore dalle mille sorprese e ancora una volta ci stupisce con una pubblicazione del tutto fuori dagli schemi (anche dai suoi), realizzata senza mai perdere di vista la qualità dei contenuti e della fattura del prodotto. Dal 26 marzo in tutte le librerie arrivano “Le avventure di Amerigo Asnicar” e già la deliziosa copertina anticipa la lettura che ci aspetta. Anzi, proviamo a formulare qualche ipotesi dall’esame dei dettagli…
Lo sfondo giallo è una forse una chiara indicazione dell’ambito letterario nel quale ci muoviamo? In alto sono disegnati dei chicchi di caffè… forse qualcuno soffre di dipendenza da caffeina? In basso c’è un mazzo di carte… con un suggestivo “Asso di Graphe.it” (geniale). Forse qualcuno è appassionato di Burraco? Nel tondo in basso leggiamo “contiene una canzone inedita di Cristiano Malgioglio”… ma allora si parla anche di musica!? …E soprattutto – e questo è il vero indizio principe – l’autore è Aldo Dalla Vecchia. Avete già capito tutto vero?
Amerigo Asnicar, alter ego dichiarato del nostro Aldo, da giornalista e autore televisivo, diviene “investigatore dilettante”. Si troverà coinvolto in sei casi misteriosi, che scuoteranno il suo glitterato ambiente di lavoro: la televisione. Durante le indagini, incontreremo i personaggi dello spettacolo (spesso celati dietro i curiosi pseudonimi), con vizi e virtù, amicizie e rivalità, trasmissioni di successo, dati auditel, gossip e aneddoti. Aldo Dalla Vecchia, che quegli ambienti li frequenta da sempre, ha davvero tanto da raccontare… e non solo: li sa raccontare bene! Guest star:Mara Maionchi, esuberante proprio come la conosciamo, e il già annunciato Cristiano Malgioglio, con un perla inedita per tutti gli appassionati. Quindi un consiglio per una serata di puro relax: la vostra poltrona preferita. Gatto o cagnolino in braccio (se troppo grande cucciato ai piedi). Cellulare silenziato. Un buon bicchiere di vino o se preferite un caffè come Amerigo… e aprite “Le avventure di Amerigo Asnicar”. Trascorrerete ore felici 😉
Nel giorno internazionale della poesia, apro un piccolo libro, che è un saggio.
Nemmeno a farlo apposta, dalle pagine mi scivola tra le dita un rettangolo di cartoncino con le parole:
“Ponemi come signacolo. O tra le cose inutili, che pur sono belle”.
Carmen Verde.
Chiaramente è amore a prima vista.
Ma lo era a prescindere. Lo sapevo.
Ci sono i segnalibri e poi c’è un libro, che parla di segnalibri.
Se non è poesia questa, ditemi voi cosa lo è.
“Breve storia del segnalibro” scritto da Massimo Gatta, edito dalla Graphe.it per la collana –Parva scintilla magnum saepe excitat incendium– che immette nel mondo gocce di saggezza a rilascio prolungato.
Sapete, con il tempo, il mio amore per “il libro” si è evoluto in una maniera tale da attaccarmi visceralmente anche a tutto ciò che lo circonda e che per questo emana bellezza.
Come si può non considerare degno di nota un oggetto che ci aiuta a manipolare il tempo? A fermarlo proprio in quella pagina, mentre una parte di noi deve tornare per forza fuori, e ritrovarlo esattamente lì, ad attenderci nello spazio dove lo avevamo lasciato insieme alle parole.
“L’uso di segnare in qualche modo la pagina, marcandola, è consustanziale alla pratica del leggere e questo fin dall’alba della civiltà dell’uomo[…] Un elemento filosofico, il segnalibro, prima ancora che materiale”.
E così dalle manicule degli antichi manoscritti, passando per materiali come cuoio, avorio, seta, metallo e carta, Massimo Gatta ci offre un interessantissimo percorso che ha per protagonisti proprio loro: i segnalibri.
Arricchito da iconografie nelle ultime pagine, possiamo leggere in tutto il libro, aneddoti che spaziano dal mondo dell’arte alla letteratura, dall’editoria alla pubblicità.
Cito, per appartenenza terrena, la rassegna “Il segno nel libro” “nella quale venne richiesto a cento artisti sardi di realizzare ciascuno tre segnalibri, che furono poi esposti in una mostra […] Organizzata a Sassari, presso il Palazzo della Frumentaria (31 marzo – 6 maggio 2006)”.
Infine, e ci ho pensato soltanto leggendo questo saggio, trovo spettacolare che sia una parte del nostro stesso corpo a travestirsi spesso da segnalibro: l’indice della mano.
Ma siccome, e aggiungo purtroppo, non possiamo fare del libro un’appendice di noi stessi, usiamoli questi oggetti magici!!
“L’unica cosa che i libri sopportano fra le loro pagine è il segnalibro[…] Il segnalibro è bello perché con lui si vince sempre […] col segnalibro non si arretra mai, voi libri non si perde, mal che vada si fa pari”.
Q.B., il libro di Matteo Colombo, edito Unicopli, dall’essenziale copertina color cielo, è un giallo.
Eh sì.
Ma per quanto ci si sforzi di catalogare un romanzo in monocromie obsolete, si può certo dire che queste pagine emanano una vasta gamma di colori. E profumi, e suoni.
Mi piacciono i thriller che parlano di tutt’altro, dove l’attenzione cola tra i dettagli della vita quotidiana e le sfumature di pensiero.
Q.B. parla di cibo. O meglio, racconta attraverso il cibo.
“Ho iniziato a guardare gli spaghetti al pomodoro come alla quintessenza della nostra arte. In un piatto fondo, fumanti, col sentore mediterraneo che sprigionano, sono un’irresistibile visione”.
Abilissimo gioco, il titolo: Quinto Botero, chef, o come preferirebbe lui, cuoco, proprietario del Beckett. Ristorante con due stelle Michelin dove un giovane apprendista, arrivato da pochi giorni nella brigata di cucina, viene trovato morto assassinato nella cella frigorifera.
Quanto Basta per aprire un’indagine e stuzzicare l’appetito del lettore con tutti gli ingredienti del noir.
Scrittura affascinante, precisa e accurata, che non si perde in fronzoli e va dritta al sodo. Schietta e sagace, in grado di strappare quel sorriso amaro che tante volte esperiamo nella vita.
Ogni personaggio, principale o secondario, è descritto con dovizia di particolari, in poche, efficaci parole.
“È un giovane, aspirante chef che assomiglia a Marcello Mastroianni. È un terrone. È perspicace e colto. È dove il mare luccica e tira forte il vento”.
E nonostante la morte aleggi tra le righe, Q.B. è un romanzo accogliente, come la sala di un ristorante quando si nutre il bisogno di “mangiare fuori” ma allo stesso tempo ci si sente come “a casa”.
“Perché un Cameriere maiuscolo è come un massaggio ayurveduico, rende il cosmo una casa docile e accogliente”.
Riconducibile al genere del romanzo storico, “Il cacciatore di corsari” di Vindice Lecis, edito da Nutrimenti Mare, è molto di più.
Il titolo suggerisce un protagonista ed in realtà Pero Niño, giovane e valoroso cavaliere, inviato dal re Enrico di Castiglia a “spazzare via quella schiuma dei mari”, costituita da pirati e corsari, è il personaggio attorno al quale ruotano diverse vicende. Ma non è tutto.
Nel romanzo vi sono altri indiscussi protagonisti: i corsari (spesso indistinguibili dai pirati), il mare e soprattutto la Sardegna. La vicenda, che si colloca in un periodo di grandi cambiamenti ed eventi importanti a livello europeo, si dipana tra la Sardegna e le coste di: Corsica, Africa settentrionale, Spagna e Francia, Maiorca, fino al golfo di Biscaglia ed al canale della Manica. Ma la Sardegna resta al centro, al centro di un Mediterraneo vivissimo, a volte terribile, inquieto e ribollente di vita pirata e corsara, con tutte le conseguenze sulla vita nella terraferma.
Con un omaggio all’intelligenza del lettore la vicenda, che si svolge nell’arco di 23 anni, comincia “in medias res” nel 1404, per poi riportarci indietro al 1383, alle vicende finali dell’ultimo giudicato della Sardegna, con personaggi del calibro di Mariano, Ugone e la giudicessa Eleonora. Storia e fantasia sono inscindibilmente legate: aragonesi e castigliani, ma anche beduini ed inglesi e poi Oristano, Alghero, Bosa, Terranova, Sassari, Castel di Cagliari, Longosardo, Castelgenovese. Pronti a salpare? Leviamo l’àncora e…vento in poppa!
Davanti a un buon libro il lettore si fa viandante presso sentieri sconosciuti, immerso in un viaggio di cui non immagina la destinazione.
Leggere questo però, come suggerisce il titolo, “Piani inclinati”, è stato esattamente un lento scivolare.
Inesorabile attrazione verso la profondità della terra, casa di questa storia.
Eleonora Carta ci parla della Sardegna, della sua natura policroma, senza mai cadere nel banale, nei fermi immagine tipici e scontati di chi si approccia a raccontarne.
La sua è una descrizione in movimento che ti fa sentire sulla pelle l’afa, l’aria chiusa e diffidente dei paesi dell’entroterra; la libertà sconfinata e insidiosa che solo un’immensa distesa d’acqua cobalto può regalare; l’apparente, antica immobilità delle pietre e il refrigerio degli alberi che fanno ombra mentre si sale in alto, verso la montagna.
“Più in fretta di quanto si fosse accorto, il fresco del mattino, che profumava di sottobosco, si era dissolto nella calura del giorno. La temperatura era salita in poche ore di dieci gradi. E adesso assaporava il modo in cui il respiro degli alberi spezzava l’afa, in folate che profumavano di umidità profonde e antiche”.
Il cambio repentino di ogni scenario e insieme la lentezza nell’attraversare ognuno di essi.
Terra viva, magica, ricca di suggestioni.
“Un’essenza antica, che portava a pensare all’isola come a una grande dea adagiata al Mediterraneo, un po’ madre e un po’ matrigna, vicina e distante, capace di abbracciare e scaraventare nell’abisso”.
Inevitabile, poi, gravitare dentro gli intricati e complessi abissi della mente umana.
“Piani inclinati” è un giallo che vede le Forze dell’Ordine dispiegate nelle indagini per rapimento di minori.
Vicenda che fa da scheletro; filo conduttore tra le pagine ma che, in qualche modo, viene lasciata magistralmente ai bordi dall’autrice.
Eleonora Carta, infatti, predilige indagare la vita interiore dei suoi personaggi con una sensibilità schietta, senza inibizione.
Linda De Falco è il maggiore del ROS di Roma, donna tutta d’un pezzo, forte della sua corazza costruita ad hoc per poter vivere in un ambiente del genere, prettamente maschile, e avere a che fare con le brutture che tante volte il lavoro le impone.
Ma ancora, la caratterizzazione del personaggio non si ferma a questo cliché.
È la vita di Linda a scorrere tra le pagine, ammaliante perché spogliata da qualunque omissione o falsità, come solo una scrittura introspettiva può concedere.
“Tutto era diventato un tornare. Qualsiasi cosa facesse, era tornare. Era ridurre il tempo che mancava. Non lo avrebbe mai confessato, nemmeno a se stessa, probabilmente. Resisteva tenacemente, fingeva di non essersi arresa, di essere solida e determinata, inattaccabile nella sua forza, ricca di un mondo interiore che non intendeva comunicare perché non aveva bisogno di farlo, tanta era la sua pienezza. Non era vero. Era una recita, la sua. Era sola. E terrorizzata. Da anni ormai”.
E con queste premesse, viene naturale entrare in empatia con Linda. Comprenderla, capire perché instaura con il rapitore un contatto viscerale.
Non si tratta più semplicemente di bene e male, di buono e cattivo, vittima e carnefice.
La linea di demarcazione è talmente sottile e fragile, da sembrare una lastra di vetro, dove a specchiarsi è il buio di entrambi.
“Linda De Falco conosceva bene le cose da cui non si può tornare indietro. Capire quanto irreversibile fosse quel passaggio, costava a chi ne era capace, grande tormento, energie, capacità di fidarsi ancora della vita. La ricompensa per esserci riusciti era la conquista di un nuovo vuoto immenso che niente avrebbe mai più potuto riempire. Per questo era tanto facile lasciarsi andare al dolore, o alla follia.”
Non ci sarebbe barlume di luce, se non fosse per Daniele Fois, ispettore del Corpo Forestale.
Uomo ponderato e sincero, libero e buono come sa esserlo la natura della sua terra, ma non per questo privo delle sue oscurità.
Perché è vero, guardare dentro il buio di un abisso una volta, può far perdere l’equilibrio. E da quel momento diventa un implacabile ruzzolare giù, trascinare in fondo ciò o chi si incontra sul proprio cammino. Continuare a cadere insieme.
Ma ci sarà sempre un appiglio. Una mano forte, pronta ad afferrare, ad arrestare la caduta in profondità, a stringere in una morsa di speranza.
Un romanzo che esplora l’isola e l’indicibile, alternando respiri corti a respiri lunghi e sciogliendo sul finale il grumo di tensione accumulata.
Confini “E allora il confine non divide, ma unisce e rende grande. Come una cicatrice, che si rimargina e tiene di nuovo assieme due lembi di pelle”. Acqua “L’acqua, nei suoi diversi stati, ha definito, spostato e ridefinito confini. […] anche l’acqua che cade dal cielo è che scivola giù, giù, sospinta dalla forza di gravità, perfetta e lineare come solo una goccia d’acqua può esserlo”. Passaggi “I colli, i valichi, i passi ci parlano di una montagna antica, terra di passaggio e di incontro”. Vette “Lo sguardo spazia su tutte queste cime. […] L’amore per la patria è raccontarne la bellezza, diffonderla, spiegarla, esserne fieri al cospetto del resto del mondo. Non chiuderesti stupidamente, trincerarsi. Ci sono ponti da costruire, nuovi cammini da percorrere. Ci sono fili da tessere che legano un territorio all’altro e, con essi, le persone”. Frontiere “Perché un popolo completamente anestetizzato, abituato all’orrore, è sempre pronto a voltare lo sguardo, è sempre disposto a ignorare la richiesta d’aiuto di un fratello che soffre, a tradire la fiducia di un vicino in pericolo. Da anni ogni volta che mi sento chiedere: Come è potuto accadere tutto questo? – rispondo con un sola parola, sempre la stessa. Indifferenza”. Liliana Segre Rifugi “Guardando dalle finestre del rifugio verso il lago di Montespluga, a ovest, le vette si stagliano sul cielo azzurro. Guardando a est, la cima del pizzo d’Emet è nascosta da nuvoloni neri”. Rotte “Abbiamo camminato molto lungo i confini e oltre. Di sicuro non tanto quanto Aziz e Samir. […] Chissà se nella loro terra, il confine è un luogo di incontro o di divisione”. Questi sono i capitoli che segnano il libro di Stefano Catone: “Camminare – Lungo i confini e oltre”, pubblicato dalla casa editrice People. Titoli come pietre, nel sentiero che l’autore ci invita a percorrere, per capire insieme quanta bellezza esiste nel semplice atto di camminare, e allo stesso tempo quanta brutalità possa significare per alcuni. Ci parla di confini naturali, non come luoghi di divisione e chiusura ma come posti vivi, in perenne evoluzione, dove le persone possono incontrarsi e volgere i loro sguardi oltre, per arricchire il corpo ma anche la mente e l’anima. Confini che cambiano, per il clima ma anche per la solita, dura mano dell’uomo. Come canta Niccolò Fabi nella sua “Filosofia agricola”: “La terra che ci ospita Comunque è l’ultima A decidere”.
L’uomo, che non si rende conto di essere piccolo, non si arrende alla grandezza mutevole di una montagna e invece di godere di varchi e passaggi come possibilità, marca e rimarca i confini. Racconta, Catone, delle vie di fuga che tentavano di imboccare gli italiani al tempo del fascismo e delle nuove rotte intraprese dai migranti lungo i Balcani. Ma “i confini sono storicamente determinati, e per questa ragione si spostano pure […] Cortine, barriere, fronti, valli, linee dicono tutto di un’epoca storica ma non spiegano nulla di quella successiva”. Un libro che prende per mano, procede attento e si guarda indietro; aspetta, riflette sull’immenso presente e volge lo sguardo a un futuro consapevole e condiviso.
Venticinque anni di noir, nella prima antologia di Massimo Carlotto: “Variazioni sul noir” per CentoAutori. Storie che scottano, narrate con impeccabile stile. Secco, delineato da inquietante lucidità. Sette racconti nei quali ritroviamo i temi descritti nel tempo dall’autore. Paura, amore, invidia, nostalgia, rabbia, vendetta. Personaggi che in poche pagine sembra di conoscere, che hanno la nostra comprensione e dai quali, improvvisamente, è bene tenere le distanze. Caratterizzati dalle sopracitate emozioni che oscillano nella sottile linea di demarcazione tra umanità e follia. Linea che, inevitabilmente, attira perché stimola quella curiosità insita nell’uomo, di voler indagare, scoprire e in qualche modo capire cosa si annida nella mente di un folle che uccide.