Le brevi storie di cui Graphe.it ci fa dono sono un po’ come le giornate che sembrano primavera a febbraio.
Inaspettate e luminose, vorresti non finissero tanto presto.
Ma come insegna la frase che dà voce alla collana: parva scintilla magnum saepe excitat incendium.
Una piccola scintilla.
Breve storia del romanzo poliziesco. Leonardo Sciascia.
Impreziosito da un’introduzione di Eleonora Carta.
C’è un filo che li lega, perché conosco Eleonora e sono certa che come Sciascia, ha avuto “un’adolescenza e una prima giovinezza trascorse in compagnia della vorace lettura” di gialli.
Che sempre continua, affiancando il suo lavoro di autrice.
In veste analitica, in questo breve saggio, ci introduce alla storia del romanzo poliziesco, segnalando il punto di confine su cui Sciascia opera magistralmente.
Non più il giallo declassato a mero passatempo, a “meditazione senza distacco” ma “uno strumento d’elezione per raccontare la società e i suoi mali.”
Cuore delle riflessioni di Sciascia, che si aprono qui con un ritratto di Giacomo Putzu, l’assunzione di significati del poliziesco, nel tempo e nello spazio.
Analisi, denuncia, persino frustrazione.
Pensiero critico.
Tutt’altro che lettura passiva.
Il ruolo dello scrittore che inizia a cercare attivamente la verità, identificandosi con il personaggio tanto da riconoscere eguali il metodo di indagine e il metodo di scrittura, come per esempio in Maigret e Simenon.
Da Poe a Christie, da Chandler a Spillane, l’evoluzione delle figure di investigatore e aiutante, di poliziotto e delinquente. Personaggi che diventano “tipi”.
Personalmente, mi ha colpito tantissimo il paragone con le maschere delle commedie d’arte.
Ma se dovessi riportare ogni cosa che ha fatto breccia in me, vi racconterei il libro con parole tutte mie e non ne varrebbe la pena.
Perché ci hanno pensato Leonardo Sciascia, Eleonora Carta, Giacomo Putzu con la sua arte e la la Graphe.it a liberare questo concentrato di bellezza e conoscenza.
Di meraviglia.
Categoria: Recensione
Piacere mio, Cosimo Piovasco di Rondò.
Al biennio delle scuole superiori continuò la mia fortuna, o il mio destino forse, nell’incontrare insegnanti di lettere uniche nel loro genere.
La professoressa Liliana non era una che dettava titoli e compiti a caso.
Lei, in classe, faceva letteratura. Come in una sorta di trance narrativa, ci portava libri, li raccontava. Liberava le storie tra i banchi, collegava le vite di questo e quell’autore, ci insegnava a riconoscere lo stile, il tempo. Ascoltava, leggeva.
Difficile non rimanere colpiti dalla sua evidente passione di lettrice.
Era un piacere starla a sentire, ancor più se nel sangue ti scorreva questa identica, meravigliosa follia.
Pamela o la virtù ricompensata , Candido, La ragazza di Bube, Due di due, La metamorfosi.
E ancora Verga, Pirandello, Giuseppe Dessì.
E poi… La trilogia di Italo Calvino.
Non è tutto rose e fiori.
Quanto ho odiato Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente.
Una noia mortale.
Che mi piacesse o meno ero stata educata a esser ligia al dovere.
Ma quella volta, la volta in cui avrei dovuto eseguire la scheda di analisi de Il barone rampante, mentii. Presi la scorciatoia dell’internet, ahimè.
Pronta, bella e non scritta da me. Giusto la modifica di qualche parola. Chissà chi pensavo di ingannare, se non me stessa.
La mia compagna e amica fu decisamente più sincera.
“Daniela, hai fatto la scheda?”
“No, prof.”
“E perché?”
“Perché non l’ho letto”.
“E per quale motivo?”
“Perché non mi piace per niente.”
“Raccontami come mai…”
E così, chiacchierarono. Di motivazioni. Daniela ricevette il suo voto negativo per non aver svolto il compito ma io rimasi sorpresa dal tono della conversazione: uno scambio alla pari. Senza rabbia, recriminazioni, dispiaceri.
Via il superfluo, soltanto ancora una volta, la bellezza di un’altra lezione di letteratura.
Sono passati ventidue anni. (Potrei avere un mancamento nel pronunciare questa cifra).
Oggi, grazie all’ArgoCircolo Letterario e alle persone del gruppo di lettura InLibroVeritas, nello specifico Rita, ho girato l’ultima pagina de Il barone rampante.
L’ho letto.
Tutto.
Non vi farò la scheda di analisi, sono vecchia ormai per queste cose.
Però vi dirò cosa ho provato. E cosa ho capito.
Innanzitutto ho finalmente compreso da cima a fondo, l’immensità di Italo Calvino.
Ho capito che i classici hanno un orologio tutto loro.
A cinque pagine dalla fine ho sentito una stretta al cuore.
Dopo averlo evitato per così tanti anni, ora non sono pronta a salutare Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante.
Mi sono affezionata a lui, alla sua giovane e perdurante determinazione, alle avventure, alle emozioni.
Mi sono riconosciuta in questa sua voglia di stare nel mondo, non importa se da una prospettiva insolita, ma connesso.
Più presente a se stesso e agli altri di quanti camminano con i piedi per terra e lo sguardo pure.
Com’è che prima mi annoiava, non lo so.
Anche se, a questo giro, sarò sincera: qualche riga l’ho scorsa velocemente, per continuare ad arrampicarmi dove più mi piaceva.
Perché, e l’ho capito con il tempo, leggere è questo per me.
Carissima professoressa Liliana, anche se quella volta barai come la peggiore delle imbroglione, ho portato a casa il suo insegnamento.
A lei, sicuramente, non interessava la burocrazia di una valutazione (che metodo orripilante mischiare numeri e persone).
Ciò che faceva, come tutte le insegnanti degne di portare questo nome, era piantare quei minuscoli semi di conoscenza e innaffiarli giorno dopo giorno.
Il resto è spettato a noi.
E da me c’è un giardino di terra, cielo, alberi, fiori, frutti, inchiostro e persone.
E grazie.
“Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.
Un altro Natale
“Un altro Natale” è il titolo del libro edito da graphe.it, in questo 2021 per la collana di narrativa “Natale ieri e oggi”.
Un titolo dove la parola “altro” ha due connotazioni, come ha raccontato Roberto Russo della casa editrice.
“Un altro Natale, che stress!”
Oppure “Un altro Natale, e meno male!”
Personalmente propendo verso la seconda. A dicembre, come a maggio, a febbraio, a settembre.
Natale è uno stato d’essere.
Due storie, una vecchia e una nuova, che raccontano la fame.
Perché, sarà il primo vero freddo dell’anno, saranno i profumi intensi, sarà che vorremmo essere scaldati dalle luci colorate e dalle tovaglie rosse… ma a Natale la fame aumenta.
Sia essa del cibo, come quella narrata da Ferdinando Paolieri nel racconto “Il Natale di Granfialunga” , o quella d’affetto raccontata da Susanna Trossero in “Tutti gli Alfredo del mondo”.
Avventura, rischio e riscatto per i Granfialunga sullo sfondo della campagna toscana negli anni 20.
Maestria, giochi di parole e tenerezza per il protagonista della Trossero.
Filo conduttore: la speranza, quella che è difficile mantenere tutto l’anno ma che la notte di Natale torna viva, forte e chiara a farsi sentire.
E trovarla appagata dentro un libro fa star bene anche fuori.
Il grembo paterno
“…e l’acqua l’accarezzava perdonandole tutto, come solo prima di esistere succede, come solo nel grembo materno.
Nel grembo paterno.
Dove galleggiamo quando ancora non siamo successi, nella pancia delle donne, nella mente degli uomini che ci aspettano e che, se si perdonano di farci venire al mondo senza avercelo chiesto, in quei nove mesi devono per forza promettere a noi che tutto ci perdoneranno, che basterà l’amore, l’amore sistemerà sempre quello che sbagliano.
Almeno fino a quando non si sfascia: ma che si possa sfasciare, l’amore, le pance delle donne e le menti degli uomini incinte se lo devono dimenticare, altrimenti non potrebbero essere mai tanto pazzi da invitare un altro essere umano, che per di più dovranno sfamare loro, a partecipare a questo terremoto dove gli altri ci sono, poi escono a controllare i fari, poi non ci sono più e poi tornano o magari no – e chi lo sa cosa è meglio”.
Il grembo paterno è una lettera.
Lunga 223 pagine.
Una lettera che tutti i figli rimasti figli vorrebbero ricevere.
Un racconto, un fortissimo grido, vomito di parole.
Un’ammissione di responsabilità, un “perdonami per gli sbagli che ho fatto e che farò. Provo almeno a spiegarteli.”
E tutte queste parole hanno sempre la sua voce.
Chiara.
La riconosci, ti sembra di risalire a bordo dell’Arca senza Noè, di riprendere da dove “non ci eravamo lasciati”.
Di specchiarti nelle ferite. Sue, di tutti, mie.
Adele si mette a nudo.
Nasce in una famiglia povera, i Senzaniente.
Che poi si arricchisce ma non sa che farsene di tutta quella ricchezza e di tutte quelle parole nuove.
Che si siede attorno a una tavola degli anni novanta, con Gigi Sabani e Magalli in tivù, e poi il silenzio e le ingombranti presenze sotto le sedie.
Il grembo paterno racconta di una generazione che con quelle presenze ci va ancora a letto, ci si sveglia, se le porta in giro, dentro.
Che fa fatica ad abbandonarle, tanto ci son da sempre, che sembrano quasi rassicuranti. Casa, forse.
E parla anche di un coraggio tutto nuovo a cui vien voglia di credere.
Il grembo paterno è una lettera d’amore.
Chiara Gamberale apre continuamente strappi dolorosissimi e poi ci soffia sopra parole.
Ci mette un cerotto su questo tempo malato.
Se ne prende cura.
Finché diventa abitabile davvero.
Casa, sì.
“Io sono convinto che la generazione dei nostri genitori non abbia sbagliato con noi figli perché sbagliava. Tutti sbagliamo. Ma ha sbagliato perché non ci ha aiutato a interpretare quegli errori”.
E all’inizio e alla fine, io, me lo sono abbracciato questo libro.
©Erika Carta
Effetti collaterali
Due cose mi sono bastate per comprare “Effetti Collaterali”, la raccolta di sei storie niure di Rosario Russo, edito da Algra Editore per la collana Sicilia Niura.
Una è stata sentire come parla del mare.
L’altra è che, alla Fiera del libro, mentre una voce di donna dal terapeutico accento siculo leggeva le sue parole, io le vedevo grazie ad Alosha (Giuseppe Marino), il danzastorie di Sicilia che le ballava.
Ma non solo. Oltre a questo, dentro la mia testa si creavano in contemporanea immagini come se stessi leggendo le pagine da me.
Non so se sono riuscita a spiegarmi ma è difficile, perché è stata un’esperienza pazzesca.
Il libro di carta che ho tra le mani è la prova tangibile di tutto questo. Una sorta di memorandum della bellezza che ho vissuto.
I suoi racconti di genere sono come voci, finite e compiute, di un unica grande storia.
E che storia è questa?
È la storia di una Sicilia così come immagino sia.
Fatta di persone.
Piena di mare, di cultura, del profumo di limoni, caffè e cartocciata di melanzane.
Attraversata dall’arte, dalle parole di illustri scrittori. Dalla mafia, dalla vita e dalla morte.
Come ho potuto leggere nell’appassionata postfazione di Salvo Sequenzia, “Russo si interroga mettendo l’accento sull’impossibilità di spiegare il perché delle ragioni del male e della morte”.
È vero.
Eppure il suo modo di narrare ha qualcosa di leggero. Che attenzione, non vuol dire superficiale. Anzi. Trovo sia un valore aggiunto. Il buio mitigato dalla bellezza del mondo, dal senso di appartenenza al territorio, alla città di Acireale, alle sue storie magiche.
Dalla voglia di dircelo.
Leggero ma di una profondità sentita e contagiosa.
La scrittura di Rosario è asciutta, pungente, misteriosa.
I personaggi sembrano raccontarsi da sé, sono schietti, perfettamente delineati dal proprio parlare, muoversi, pensare.
E leggendo, io ho trovato il mio personale comune denominatore di queste sei storie nere: l’amore.
Si cunta ca u pasturi
assai vuleva beni
a Galatea, e pi idda
assai ni visti peni
ma n’da l’occhi si vardavunu
di veri ‘nnamurati
Confessioni di un omosessuale a Émile Zola
“Vivo una vita fittizia e mostruosa, ma la mia esistenza non è quella di un privilegiato? Sono a tratti perfettamente felice e tranquillo, ma in altri momenti non lo sono affatto e vorrei qualcosa di nuovo e non so dove trovarlo. Ah! Perché la natura non ha dato all’uomo almeno dieci sensi? Cinque sono troppo pochi, a cosa possono servire? Dio! Quanto mi annoio.”
Non ci riconosciamo un po’ tutti in questa frase?
Io sì.
Eterosessuale, donna di trentasei anni negli anni ‘20 del 2000.
Eppure a scrivere questa frase è un ragazzo, omosessuale nel 1889.
Ma voglio smettere subito di parlare per “etichette”.
D’altronde colui che ha scritto le parole qui sopra non ha neppure nome.
Lui è Anonimo e le sue sono le “Confessioni di un omosessuale a Émile Zola”.
Essendo io, sempre più a contatto con il mondo dei libri, dell’editoria, degli autori e dei festival letterari come la mia amata Fiera del libro di Argonautilus, sento spesso parlare di narrazione, di tecniche di narrazione. Di trame, schemi, regole per confezionare un romanzo che sia bello, ma anche appetibile come prodotto commerciale, giustamente.
La giovanissima casa editrice Wom, partner della Fiera, fa però qualcosa in più, a parer mio.
Lascia di stucco.
Questa, di Anonimo, è una lettera a cuor scoperto, pubblicata integralmente per la prima volta in italiano.
Scritta divinamente, si fa leggere in modo travolgente dall’inizio alla fine. Non c’è mistero, non c’è suspense, non una scaletta che abbia inizio, svolgimento e via discorrendo.
Ad attrarre in modo così spudorato è la sincerità disarmante dell’autore. Una richiesta d’aiuto, la necessita irrefrenabile di mettere nero su bianco la natura dell’essere, la voglia di capire e insieme di spiegare.
Il soggetto, passatemi il termine, è un giovane italiano benestante, appassionato alla bellezza.
“Mi piace tutto ciò che è bello, e quasi nulla, in ogni genere, è abbastanza bello ai miei occhi, tanto amo quel che è eccezionale, ricco ed elegante. Ho fabbricato con l’immaginazione palazzi più bello di tutti quelli che esistono, stracolmi di opere d’arte scelte tra tutti i capolavori del mondo intero. […] Ai miei occhi la bellezza rappresenta tutto, e tutti i vizi, tutti i crimini mi sembrano da lei giustificati.”
Egli scrive a Émile Zola offrendo se stesso e la sua esperienza personale come figura da aggiungere a “quella galleria di tipi che sono i Rougon-Macquart: un protagonista omosessuale”.
Ma la sua sincerità diviene un’arma a doppio taglio. È troppo, perfino per lo scrittore francese, che affida “Le Confessioni” al medico Geroge Saint-Paul, alias Dottor Laupts.
Così, questa lettera spassionata viene sì pubblicata ma come “caso di perversione sessuale”.
Quello che arriva a noi oggi però è un libro di 148 pagine che “sono al contempo un romanzo, una testimonianza e un documento unici sul coraggio di un uomo che denuda la propria anima di fronte a una società che non riconosce le singolarità che la costituiscono. Una rivendicazione alla sovranità dei corpi, al dovere di goderne, alla tutela di ogni differenza – un messaggio ancora oggi di profonda attualità”.
Non saprei dirlo meglio.
(P.s.) Personalmente ho adorato l’irriverenza di Anonimo quando parla del suo ego.
“Mi sembra sempre di aver finito e trovo ogni volta qualcosa da raccontarle. Del resto mi piace talmente parlare della mia personcina che non smetterei di evocare la mia immagine guardandomi qui come in uno specchio. Non penso ci si possa mai stancare di parlare di se stessi e di studiarsi nei minimi dettagli, soprattutto se l’essere che la natura ha forgiato è tanto eccezionale quanto lo sono io. Penso davvero che dopo tutto ciò che le ho scritto dedurrà il resto del mio carattere, delle mie idee e anche delle persone che mi circondano, ma siccome questo mi diverte enormemente, vado avanti ancora per un poco, più per me che per lei”.
(P.p.s.) E non posso che sentirmi empaticamente risoluta insieme a lui quando infine dice:
“Ah Signore! Sentirsi diverso rispetto a tutti gli altri è talvolta una soddisfazione. Oramai so ciò che sono e ciò che voglio. Tale sono nato, vivrò e tale morrò.”
Uccidiamo lo zio
“Una certa alchimia propria all’isola, li aveva trasformati in una coppia di bambini reali, di bambini magici”.
Trovo sempre incredibili e, forse, i più ben riusciti, quei libri che partono sotto classificazione di un genere e che poi dalla prima all’ultima pagina prendono una strada diversa e contorta, senza che il lettore se ne renda davvero conto.
È questa l’impressione che mi ha suscitato “Uccidiamo lo zio” di Rohan O’Grady.
Il titolo la dice lunga.
Sia ben chiaro: ogni riga è impregnata di “black humor”, sembra un “giallo” alla vecchia maniera. Ma non soltanto.
Tutto il romanzo, nel complesso, è come una vacanza estiva, pausa dall’inverno, una bolla dove si intessono rapporti sempre più fitti al ritmo tra il calar del sole e il sorgere d’ogni nuova alba.
Dove parlare di bugie, violenza psichica, ricatti morali e morte non è poi così tragico.
Strano vero?
Ma questo è l’effetto.
Perché i protagonisti sono due marmocchi, Barnaby Gaunt e Christie Mcnab che per motivi diversi giungono su un’isola tranquilla, pacata e ordinata, dove non succede mai niente, come in tutte le isole, finché non arriva qualcuno a smuovere le acque, a togliere le maschere, a mescolare le carte nel mazzo.
Eppure è la loro naturalezza bambina a rendere tutto così scorrevole e accettabile. Perfino quando si tratta di commettere un omicidio premeditato!
Il nemico? Uno zio cattivo che per primo e con una ferocia subdola e inaudita mira a eliminare l’ultimo ostacolo che lo divide da una cospicua eredità.
La penna di O’Grady sviscera però nella quotidianità del racconto, tantissime sfaccettature della mente umana(e non solo), con particolare attenzione ai rapporti tra adulti e bambini, troppo spesso flebili voci mal interpretate, non udite o meglio… non ascoltate.
Parrebbe un ritmo lento, sonnacchioso, invece ci si ritrova travolti da un’inspiegabile allegria e nello stesso tempo dalla difficoltà di interrompere la lettura, come spiati di continuo da un paio d’occhi sinistri.
Divertente e magico, “Uccidiamo lo zio” è un romanzo del 1963. Rohan O’Grady è in realtà June Margaret O’Grady Skinner, scrittrice sottovalutata che nel 2010 prende nuova vita con la ristampa del romanzo da parte della casa editrice Bloomsbury e che a detta di Donna Tartt, era già allora “molto in anticipo sui tempi”.
Pubblicato per la prima volta in Italia, grazie alla WOM, (acronimo di Word Of Mouth) giovanissima casa editrice che incappa accuratamente su gioielli letterari e che, a parer mio, rende giustizia alla bellezza. Sia essa delle immagini, delle parole scritte o raccontate a voce. Dell’interazione.
E che a una velocità disarmante ha già piantato radici nel cuore di librai, lettori e sostenitori della cultura. Quelli pazzi.
Quelli che…
“stanno spesso in un cantuccio, all’ombra della propria lampada, assorti nel silenzio e in ascolto della cantilena della propria lettura, mentre fuori, la classe dei mercanti e dei guerrieri, degli arrivisti e dei capibanda, degli strilloni e degli arruffapopoli, fabbricatori di best-seller, si scannano e si divorano gli uni con gli altri, mentre l’ombra del tempo è sospesa da un punto e a capo”.
Maicolgècson, una storia di scoperta e crescita
di Maria Francesca Carboni
Ci sono più momenti nella vita in cui potremmo essere chiunque. Uno di questi è la prima infanzia. E subito dopo l’adolescenza. Anche se le ricerche scientifiche dicono che questa capacità di cambiare per diventare chi vorremmo essere, in realtà, duri tutta la vita e dipenda dalla plasticità del nostro cervello e dalla ricchezza delle esperienze vissute.
Paola Soriga, con il suo romanzo Maicolgècson (Mondadori), sembra voler parlare di questa speranza: il costante mutamento che, infine, approda alla scoperta di sé. Il cambiamento in questo caso riguarda le imprese di una bambina che diventa ragazza, adolescente. E durante la crescita scopre la sua strada, fra le infinite possibili. Più di un destino, la storia di Remigia, in arte Maicolgècson, è la costruzione corale di un cammino condiviso.
I suoi maestri sono star della musica. Prima di tutto Michael Jackson, a cui deve il nome, per via di quei capelli ricci, fitti fitti, come lana d’acciaio. E Maicolgècson è “su nomingiu”, il soprannome, che zio Stefano le dà appena nata.
Poi ad ispirare Remigia durante tutto il racconto sono i suoi parenti, le nonne, gli zii e le zie, i cugini. Ma soprattutto i suoi “didini”, il padrino e la madrina del battesimo, figure eclettiche, fuori dagli schemi, che di quel potenziale vedono tutti i possibili risvolti, come dei veggenti. E per questo lo coltivano, lo stuzzicano con affetto.
Mike, così si farà chiamare Remigia dai suoi amici, ad un certo punto, la strada del suo futuro la intravede. Vuole cantare. E poi vuole ballare. Lo scopre crescendo. E anzi forse vorrebbe tutto: ballare e cantare come se fossero un’unica cosa.
Paola Soriga racconta la storia di una famiglia uguale a tante, ma diversa nel modo singolare di vivere la quotidianità. Le storie del vicinato allargato si intrecciano con quelle di Remigia bambina e poi adolescente. Ci sono i parenti stretti, i parenti che abitano in “continente” e tornano solo per le vacanze estive. Poi i vicini di casa, gli amici dell’estate. I ragazzi grandi che vanno e vengono, fidanzati e fidanzate dei suoi padrini di battesimo.
La finestra da cui Remigia ammira il mondo contempla orizzonti vicini e lontani. I più noti, quelli della sua famiglia, sono i loggiati delle case campidanesi in cui studia canto o gioca con i cugini e cugine a casa dei nonni. I cortili e giardini della campagna cinta da filari di fichi d’india e frutteti. Il roseto che il padre di Remigia coltiva per la madre della ragazza. I palazzi bianchi di Cagliari, il mare piatto e limpido come se qualcuno lo avesse pulito con il Vetril. Il dialetto sardo campidanese che segna i confini dell’esperienza familiare di Remigia e diventa pratica, consuetudine, azione, un modo di essere e agire difficile da restituire in altre lingue.
Invece gli orizzonti lontani sono tracciati dai suoi idoli, dai cantanti a cui si ispira: Eros Ramazzotti, Laura Pausini, i Queen, I Nirvana. Sono i mondi musicali conosciuti grazie a zio Stefano (e non solo). Ma sono inoltre le esperienze di vita che varcano la pianura del Campidano e arrivano addirittura a Londra, dove abita la didina Gina.
Remigia, quindi, cresce e scopre l’amicizia, l’amore, le delusioni. E più di tutto sé stessa. Rivendica con tenacia quello che le appartiene: la sua vita, così come lei è riuscita ad immaginarla fino ad allora. Tanto che il desiderio infine prende forma. Perché Remi – così si farà chiamare arrivata alle superiori – continuerà a danzare e cantare, orgogliosa dei suoi talenti.
Maicolgècson di Paola Soriga racconta una storia particolare e universale allo stesso tempo. Questa storia potrebbe essere ambientata ad Uta, Assemini, Siliqua perché “i paesi si somigliano, forse in tutto il mondo e certo qui da noi”, come dice l’autrice. Quindi se le vicende raccontate sono certo particolari, ciò che di universale rimane è l’intrecciarsi dei sentimenti intensi, a volte contrastanti, estremamente umani, che Remigia restituisce attraverso i suoi occhi, facendosi portatrice della sua storia e di quella degli altri.
Tre gocce d’acqua
“È questo che fanno gli scrittori, interpretano le crepe degli altri, frugano nei loro nascondigli, anche senza conoscerli. Anche quando se li inventano”.
Ho letto il libro di Valentina D’Urbano in spiaggia, con la mia amica impegnata in un’altra lettura. Tante volte ci teniamo questa compagnia silenziosa.
A un certo punto mi ha parlato. La sua voce mi è arrivata da lontanissimo, concretizzandosi solo nelle ultime sillabe. Ho sollevato gli occhi dal libro, mi sono guardata intorno e ho visto lei, la sabbia, l’acqua salata, Pan di Zucchero.
Mi son resa conto di non essere lì, senza sapere più da quanto tempo, persa com’ero nel corridoio di una casa a Roma con Pietro, Celeste e Nadir.
Questo è quello che fa Valentina D’Urbano.
Ti prende, letteralmente. Ti porta via da ovunque tu sia, ti risucchia nelle pagine, invischia ogni parte di te alle sue parole, ti fruga dentro, rimestando le certezze dei valori che vai costruendo, continuamente.
Due famiglie. Generatrici, contenitrici e sfondo fuori fuoco. Tre figli. Tre fratelli. Tre persone.
Tre gocce d’acqua a formare un’unica pozza.
Amore. Senza articoli davanti, senza etichette.
Che di questo si tratta.
Grande quanto una villa estiva con piscina, vissuto, con la ruggine alle ringhiere.
Aggiustato.
Potente come un ideale, una ricerca, lo studio, un viaggio in Siria.
Ruvido, in bilico e silenzioso, ma sempre lì.
Pietro: bello, il fulcro di incontro. Unisce e divide. Intero, nonostante tutto.
Celeste, che riflette negli altri le crepe sue. Più fragile dentro che fuori, nelle sue ossa di vetro. Riccio di mare.
Nadir, brutto e smilzo, che attraversa la vita senza spezzarsi, trascinando con sé chiunque incroci il suo cammino. Nadir, che aspetta. “Amore assoluto”.
La penna di Valentina D’Urbano è un “rotolare di pietre” e i suoi personaggi vivono una vita che potrebbe essere una qualunque ma tutti, tutti, hanno dentro una bestia. E chi non ce l’ha? Diverse, certo, con ritmi sonno/veglia, indipendenti da noi.
Ma è sempre un riconoscersi a specchio, nelle sue parole dure, secche, affilate e così piene.
Nelle sue persone, in tutte.
In Pietro, che con la sua saggezza delicata ci consiglia di prendere una posizione, di parlare.
In Celeste che per tanto, troppo tempo, non sa dire, non riesce a mettere in parole quello che sente, dandolo in pasto alla sua bestia.
E in Nadir, che parla sempre, pur senza dire nulla.
Come al solito, a fine lettura (difficile da chiamare “fine”, che era appena cominciata) il cuore rimane graffiato ma di nuovo più ricco.
Di quell’unione, che diventa familiare.
“I legami di sangue sono affilati, recidono qualsiasi altra cosa”.
Di gratitudine.
“Sai da te quanto t’ho amata”.
Un cuore logorroico
Dove stanno le parole?
Ne è piena la mente.
Ho l’immagine di stringhe di lettere che circolano e si incrociano di continuo, all’altezza delle tempie.
Nella mano, che guida la penna a portarle via, per depositarle su un foglio.
Ma posso dire, con certezza quasi assoluta, che a farle nascere ci pensi il cuore.
Tanto più se è un “Cuore logorroico” come quello di Stefania Congiu, che (finalmente) ci regala la sua seconda raccolta di poesie.
Sono altrettanto sicura che nel momento in cui lo leggerete, ci sentirete anche il vostro di cuore, dentro. In questo spazio condiviso e paradossalmente silenzioso come soltanto un libro riesce a essere.
Molto spesso si suole fare confronti tra i libri di uno scrittore. E così, immancabilmente, penso a “L’elefante tra gli ombrellini” dove Stefania scattava parole, scrivendo fotografie così nitide che sembrava si animassero davanti agli occhi.
Ora abbiamo questo cuore, che ha come cambiato prospettiva.
Legato profondamente alla natura della nostra Terra, alla lentezza, a chi… per forza di cose ha dovuto osservare molto più dentro, che fuori.
Così, è parso a me.
Ma si sa, le parole, soprattutto quelle in versi, hanno l’enorme potere di uniformare o ramificare i pensieri, in un terreno da spartire tra chi scrive e chi legge.
Io, sono grata a Stefania per aver trovato il coraggio, una seconda volta, di donare a noi le parole del suo cuore logorroico.
Spero tanto lo sia anche lei, per essere riuscita a lasciarle andare.
“Di chi scrive”
“Si sentono arrivare
come onde improvvise,
non hanno barriera.
Si prova a scansarle
ad allontanarsi
a non ascoltare.
Delle volte sono leggere,
altre pesanti.
Non si lasceranno mettere a tacere,
devono avere parole.
Serve uno spazio vuoto,
spesso servono silenzi
per i turbamenti di chi scrive
schiavo di emozioni e impressioni
che anche solo un altro
a leggere possa riconoscere”.
Un cuore logorroico
Stefania Congiu