Andrà tutto bene

Andrà tutto bene

Se io avessi le parole, le potessi immaginare.

Fosse facile spiegare, si riuscissero a suonare.

Se potessi raccontare, se sapessi come fare, se sapessi cosa dire allora ti scriverei…

Una canzone d’amore. 

Ecco, perché è questo. Tutto ciò che dirò e che mi viene da quello che ho visto, sentito e vissuto è riconducibile a questo: una immensa canzone d’amore.

Gli 883 sono questo, una canzone d’amore cominciata decenni addietro, destinata a non finire mai.

Naturalmente ho guardato la miniserie tv che con tutta probabilità gridava al successo ancora prima di arrivare sugli schermi.

Merito della storia leggendaria di due ragazzi, Massimo Pezzali e Mauro Repetto, quelli veri, che per varie circostanze volute dal destino, si incontrano in una quinta liceo alla periferia di Pavia.

Due ragazzi che si sono appunto trovati per caso, riconosciuti a specchio a un livello inconscio di complementarietà, che seppure in misura differente si sono spronati l’un l’altro a buttarsi, rischiare, sbagliare, a seguire i sogni, a sacrificarne altri, a non mollare, a vivere e fare la storia, un pezzo di storia della musica italiana. 

Perché l’hanno fatta e non sento repliche.

Merito di ideatori, sceneggiatori, registi e attori giovani e bravissimi che hanno reso in arte del racconto questa storia. 

Con tutti i dettagli visivi, sonori ed emozionali annessi. 

I motorini, la sala giochi, i bar, le macchine dai colori discutibili. Il telefono di casa, la SIP, gli adesivi nelle ante dell’armadio, le cassette di Marco Masini, il Cantagiro e Alessandro Canino. Radio Dj, Claudio Cecchetto, Fiorello, l’Acquafan di Riccione, i telegatti, Lorenzo Jovanotti.

Di piangere me lo sarei aspettata, conoscendomi e conoscendo il tema (magari non per tutte le otto puntate, ma comunque… sì). Di ridere, forse non così tanto. Nemmeno di provare tutte quelle emozioni e reazioni a catena da portarmi ancora una volta qui, (qui seduta in una stanza) dentro una nostalgia così atavica che non importa più se faccia bene o male, rimane sempre e solo da vivere. In tutta la sua intensità.

Mia sorella scrive: “Gli 883 sono i viaggi in macchina, alle elementari, cantando a squarciagola con mia sorella. Lato A e Lato B a memoria. Cantiamo? Sì.”

Potrei finirla così, perché lei ha una squisita arte del riassunto. Ma di contro, io devo aggiungere, sempre. 

Gli 883 che fanno cantare “Hanno ucciso l’uomo ragno” a un bambino che ha tre anni adesso, oggi, sono il legame forte che ha unito due generazioni in particolare: la nostra e quella dei nostri genitori. 

Ecco perché è così intenso ogni ricordo che ha come sottofondo le note de Gli anniLa dura legge del gol e Come mai.

Gli 883 sono quel movimento che ti spinge a uscire nel 2024 in una notte d’estate per sentire quelle canzoni riprodotte da una cover band e cantare, cantarle tutte.

Gli 883 sono i pomeriggi d’estate riunite “al fresco” in cameretta di un’amica prima di poter uscire fuori a giocare per via della “mamma del sole”, a registrarci senza nemmeno la musica sotto, REC: “Tutti mi dicevano vedrai…” e scoppiare a ridere perché è venuto fuori un tono estremamente basso, quasi rauco, cercando di imitare quello di Max.

Gli 883 sono quella stessa estate in cui il quartiere era come una grande casa con tutte le finestre aperte e potevi sentire la stessa musica dalla stanza di un’altra persona e allora prendere coraggio e bussare alla porta del vicino per chiedere in coro: “Ciao ce la presti la cassetta degli 883?”

Gli 883 sono il mio primo, indimenticabile concerto.

Gli 883 sono stati il rimedio per le cose troppo grandi della vita, per quando la morte risultava un concetto ancora incomprensibile ma non per questo meno tangibile.

Gli 883 sono quella musica che ascoltavi apposta per piangere tutte le lacrime per un grande amore perduto… (grande: sedici anni, perduto: e chi l’ha mai avuto?!)

Gli 883 sono le parole cantate a bassa voce  prima di dormire, con le strofe sbagliate, saltate, invertite.

Gli 883 sono il Festivalbar e Nord Sud Ovest Est, sono quelle serate al karaoke quando dici “Dai metti una canzone che sappiamo tutti” e parte “Stessa storia stesso posto stesso bar”; sono quelle note di introduzione che senza volerlo accendono immediatamente gli occhi e tutto quello che c’è conservato dentro.

Gli 883 sono ancora un calmante valido quando l’ansia di questi tempi ti assale e ti insegue in movimento.

Gli 883 sono Max Pezzali e Mauro Repetto.

Gli 883 sono un concetto. E questo concetto racchiude tre cose sulle quali una come me ci ha fondato, credo, tutta la sua ragion d’essere: famiglia, amicizia, amore. 

In qualunque forma esse siano state vissute, cantando gli 883, si azzerava tutto. 

A rimanere, soltanto le parole che son diventate di tutti, cantate con il sorriso e con gli occhi semichiusi mentre la macchina avanza dritta e la strada corre indietro, incontro, intorno.

Ho scritto su Instagram che sentendo le note di Come mai, mi è venuto da tenermi il cuore con le mani. Perché è tutto lì e io lo voglio toccare, proteggere da ogni cosa e conservare per sempre.

E siccome non so proprio quale frase di quale canzone scegliere per concludere, ho deciso che chiuderò così:

Max, ma io questa come la ballo?

Erika carta

Dimmi di te

Dimmi di te


Ultimamente mi scopro scettica quando inizio a leggere libri di autrici, autori che amo. 

Tanto lo so, che non mi deluderanno, che saranno sempre una garanzia, però ho lo stesso un po’ paura. 

E questa emozione non mi disturba, al contrario. Perché poi quando arrivo all’ultima pagina sono così felice che a essersi sbagliata sia proprio la paura, e non io. 

È la volta di Chiara Gamberale. Che è arrivata in libreria con il nuovo romanzo, “Dimmi di te”, che quando ho condiviso un reel dal suo profilo Instagram qualcuno mi ha chiesto: “Quindi? Cosa ci vuoi dire?” E tra le tante risposte che hanno affollato immediatamente la mia testa ho scelto: “che oggi esce il nuovo libro di Chiara Gamberale”. 

E non l’ho comprato, quel giorno. E neanche pochi giorni dopo, quando ho preferito prenderne un altro, dallo scaffale alla Mondadori. 

Ha dovuto aspettare, la mia autrice preferita, quella per cui sono volata a Roma, con Federica, a vedere “Qualcosa” e a riempirmi gli occhi di lucine davanti a lei. La mia Chiara.

Ma sono io che ho atteso lei e le sue parole che fanno sempre, sempre specchio con il mio vuoto. E dove mai, altrimenti, si specchierebbe il vuoto? 

Ho sollevato il capo dalle mie quisquilie per ascoltare le loro […] E io ho scelto le storie, fin da quando avevo l’età di Bambina. Dunque, mi dispiace: ma mettitela via. […] Scriverò l’ennesimo libro che straborda di quisquilie.”

E meno male. 

Eterna adolescente, o “bambina marcia” come qui si definisce. Se sapesse che la parola quisquilie non può che ricordarmi Anacleto de “La spada nella roccia”, le basterebbe per capire quanto mi specchia questo specchio! 

Qui Chiara parte da un blocco, il peggiore dei peggiori per una scrittrice, presumo.

Anche da questo ostacolo, però, nasce una domanda. C’ha sempre domande, lei. 

Quando si leggono i suoi libri sembra che stia a scrivere soltanto di sé stessa… mai cosa si rivela più sbagliata.

Ho letto i libri che hai scritto e so che partono da un’esperienza personale, ma immagino che non racconti proprio tutti i fatti tuoi e che sei abituata a mescolare le carte.”

Ecco, ci ha azzeccato una delle sue stelle polari: una tra le persone di cui ha raccolto la storia in un quaderno giallo per rispondere a quella domanda: “Sei riuscito a crescere? Mi spieghi come si fa?

Chiara, a proposito della magia riscoperta che tanto nomina in questo libro, mescola le carte. Le sue, quelle delle persone da cui è circondata e che ci racconta… e le nostre. 

Inevitabilmente, che ci piaccia o no.

Io la trovo meravigliosamente complessa, la sua scrittura. O la lettura, che per me, come per lei, è la stessa cosa. 

Mi fa impegnare, mi fa cadere, mi fa dissentire e distaccare. Mi fa riconoscere. 

È cerotto e strappo sulle ferite. 

Così, mentre parla di sé e di noi, ci racconta le storie di Raffaello, Ivan, Renata, Marcolino, Paloma, Stefano (che rende meglio come Terence di Candy Candy).

Storie d’amore, tutte.

Tutte patologie elette a sistema.”

Le sono grata. E sono grata a me per le mie scelte, le mie letture, in ogni senso. 

Eravamo troppo piccoli per comprenderla, ma ci entrava nel sangue. […] dobbiamo pretendere bellezza dal mondo. […] La salvavano le quisquilie.” 

© Erika Carta

Figlia del temporale

Figlia del temporale


Una volta che le hai lette, le storie che racconta Valentina D’Urbano, le puoi chiamare per nome. 

Nadir e Celeste , Andreas e Neve, Beatrice e Alfredo.

Hira. E dici tutto.

Astrit, e tutto è lì. 

Non ero scettica ma intimorita da questo nuovo romanzo.

Avevo un po’ paura di non trovarla, Valentina, tra queste righe.

Altroché.

Sapevo anche però, che avrebbe toccato profondità diverse, solo non immaginavo quanto.

Una copertina “talmente bella da fare male” come ha detto la mia amica.

Un titolo evocativo: “Figlia del temporale.”

Io, che dei temporali ho terrore, ho capito subito che questo ce lo avrei avuto dentro.

E così è stato. 

La tensione costante, il lampo di luce che erroneamente fa chiudere gli occhi un secondo troppo tardi e così, il tuono che arriva si sente amplificato. Gli squarci di cielo e sollievo quando le nuvole si allontanano.

Hira è una bambina che vive in Albania, nella città di Tirana. La casa dove vive crolla su se stessa portandosi via radici e storia.

Ci si finisce immediatamente, dentro i suoi occhi, a scorgere lo smarrimento e il coraggio che l’accompagneranno per il resto della storia.

Viene portata nella casa sui monti a Nord del paese, dagli unici parenti che se ne possono occupare: zio Ben, zia Leda e i loro figli, Danja e Astrit.

Astrit è bambino e silenzio. È ragazzo e gestualità. È uomo ed è voce di montagna. 

È lupo.

Lassù, la vita ha regole tutte sue, immutate e immobili, a cui Hira si abitua con il tempo fino a farle pienamente sue.

Astrit, invece, segue il ritmo del cielo, della terra sotto i suoi piedi leggeri; si muove agile nel buio fitto del bosco, parla il linguaggio della natura. 

Hira e Astrit si comprendono, si cercano, si tengono in uno spazio accessibile a loro soltanto.

Perfino quando Hira prenderà la decisione che cambierà per sempre il corso della sua vita, quando l’unico modo per rifiutare un matrimonio combinato è diventare una burrnesh, una vergine giurata.

Tutte quante, tutte. Dobbiamo sempre rinunciare a qualcosa. Dobbiamo sempre spezzarci in qualche punto. Intere non andiamo bene, intere non ci possono sopportare, non è vero?”

Diventerà Mael, uomo nei modi di fare, di vestire, uomo per la comunità.

E non sarà il solo uomo a dover fare i conti con questa femminilità imprigionata.

Ero solo. Né uomo né donna, entità sperduta e irriconoscibile, creatura libera.”

Anche questa volta Valentina D’Urbano è riuscita a puntare la sua luce su una realtà sconosciuta ai più, cucendoci intorno le vite di di due personaggi che si staccano da lei per attaccarsi a noi, che avidi ne leggiamo.

Un romanzo che emoziona nel profondo e che lascia, alla fine, due parole a fior di labbra.

Hira.

Astrit. 

© Erika Carta

La ragazza che amava Miyazaki

La ragazza che amava Miyazaki

Sono venuta a conoscenza di Hayao Miyazaki lo scorso anno, dentro il mio amato ArgoCircolo Letterario, in prossimità della Fiera del libro di Iglesias. 

Avevo quasi trentotto anni, che mi sembrano già lontanissimi dai trentanove di ora, e soprattutto mi sembrano sempre troppi.

Troppi anagraficamente e anche troppi, pensavo, per scoprire un mondo che inspiegabilmente, proprio io, non avevo preso mai preso in considerazione. 

La miccia che ha acceso questo colpo di fulmine è fatta di tre persone, che sembrano una, o di una che si moltiplica per tre (dev’esserci uno strano sortilegio in atto): Raffaella Fenoglio, Silvia Casini e Francesco Pasqua.

E del loro libro: “La cucina incantata”. 

Mi diedi questa risposta, allora: non è mai troppo tardi, c’è sempre tempo per conoscere. Per scoprire, per apprezzare. E meno male. 

Qualche giorno fa, complice l’estate Argonautilus con la sua festa del grande blu e la Libreria Mondadori di Iglesias, “La ragazza che amava Miyazaki” è finito tra le mie avide grinfie, direttamente dal meraviglioso angolino che abbiamo creato per il Big Blue Festival: il nostro ArgoBook Shop, nuovo di zecca.

Autori, sempre loro: Fenoglio, Casini, Pasqua.

Giuro che questa volta, ancora di più, vorrei poter entrare nella magia che li spinge a scrivere in tre una storia che sa di una persona soltanto. 

Inutile dire che l’ho letto in pochissimi giorni. Catturata, trascinata in mezzo alle pagine dal bordo rosso, leggera come una foglia di ciliegio che vola e si posa sulle parole.

Sì, perchè questo libro parla di Giappone anche se la protagonista vive in Italia; questo libro è tutto permeato dall’influsso miyazakiano anche se racconta un’altra storia.

Sofia, diciotto anni.

Nerd incompresa in un piccolo paese che i suoi occhi pieni di meraviglia dipingono comunque come un posto incantevole, che somiglia tanto ai paesaggi degli Anime che tanto ama.

“Si presenta in tutto e per tutto come un borgo uscito fuori da un fantasy […] A guardarlo dall’alto, sembra più un sinuoso lombrico incastratosi nel bel mezzo di una scenografia di case basse, perlopiù costruite in pietra o in tufo, caratterizzate da graziose scalette esterne che affiancano balconi sempre adorni di fiori e di piante rampicanti.”

C’è il fiume, che le fa compagnia con la sua musica.

C’è Baron, il gatto rosso.

C’è Marta, l’amica roccia di cui tutte abbiamo bisogno. Sincera, leale, presente. 

E c’è, in qualche modo, nonno Guido.

“Non tradire mai il tuo talento.”

Cosa le manca allora, a Sofia? 

Ha diciott’anni. Le manca tutto e non le manca niente. 

Si porta dentro una nostalgia di secoli, di cose mai vissute e di quelle ancora da vivere.

Eternamente combattuta tra ambizione e amore, tra bisogno di comprensione e desiderio di affermazione. 

Tra paura e coraggio.

Devo ammetterlo, all’inizio ho pensato che fossero troppi, diciott’anni, per descrivere una ragazza così, in questo tempo fatto di Instagram e hasthag. 

Poi ho pensato che forse a stonare fosse proprio quello: entrare dentro l’anima di questa Sofia come fosse la mia, quando diciott’anni li avevo intorno ai famigerati 2000. 

E alla fine ho capito.

Lo possiamo leggere tutti, proprio tutti, questo libro. 

Perché parla di cose vere che chiunque di noi ha vissuto, seppure in epoche differenti, in contesti e con strumenti diversi.

Perché va al cuore di queste cose e lo fa con un mezzo usato in modo semplice e chiaro: il linguaggio, le parole. 

Che meraviglia!

Senza contare il pizzico di magia, spruzzato qua e là, a colori sopra un muro o in mezzo a coincidenze che sembrano assurde ma che se ci pensate un po’ più a fondo, non è affatto raro che possano accadere nel reale. 

Da dove le prenderebbero altrimenti, questi tre bravi autori, per raccontarcele?

No, non è tutto, solo merito di Miyazaki. 

Fatevelo un regalo, tornate i diciottenni che siete stati o che avreste voluto essere.

Sognate tutti  un po’  di più, dentro questo presente.

 © Erika Carta

L’implosivo

L’implosivo


Quando si conosce un autore e il suo libro geniale, potrebbe presentarsi qualche difficoltà nello scrollarselo di dosso. 

(E dove sta scritto che bisogna farlo?)

Perché, diciamolo: il “Don Chisciotte in Sicilia”, di Roberto Mandracchia… è un libro geniale. 

E infatti lo abbiamo detto e continueremo a farlo.

Ma.

Il cinque luglio di questa estate è arrivato “L’implosivo”. 

Dalla copertina, illustrazione di Patrizio Marini, alla storia zen di quattro righe piena di realtà, dalla casa editrice Minimum Fax a simboli che evocano altri simboli e nascondono aneddoti anche migliori, non posso che esserne conquistata. Subito. Appena lo vedo, appena lo compro, appena lo sfoglio. 

Poi.

Arriva lo smarrimento. 

Per una cinquantina di pagine cerco qualcosa di passato nel posto sbagliato.

E me ne rendo conto dal confronto con i miei amici e lettori attenti. (Ah, la meraviglia di parlare dei libri.)

Allora cambio chiave di lettura. E capisco.

Capisco che mentre Lillo Vasile, la solitudine ce l’aveva dentro… Carmine Stanga ce l’ha fuori. 

Cercai sul vocabolario la parola implosivo […] e scoprii che in verità esisteva e si riferiva in senso fisico all’implosione che, al contrario dell’esplosione, succedeva dall’esterno verso l’interno, […] ma c’era pure un senso psicologico: la sensazione che un individuo ha di avere il vuoto dentro, e la paura che il mondo possa invaderlo e cancellare la sua identità.”

Che l’empatia, con Lillo Vasile, è immediata ed è una coccola, tanto per lui quanto per chi ne legge le gesta.

Carmine Stanga invece, è il male.

Ma l’empatia arriva anche per lui, all’improvviso, in momenti che non ti aspetti, come questo:

Mi ero messo su uno scoglio a guardare il mare che si muoveva calmo calmo, con un suono calmo calmo preciso a quando strofini da una parte all’altra il dito su un foglio, sotto la luna e questo cielo nero che formicolava di stelle. Insomma me ne sono stato lì per un sacco e mezzo di tempo e quasi mi stavo dimenticando pure chi ero io, quando ho sentito una presenza alle mie spalle ed era lei. C’era un odore di pulito e poi pareva che tutte le cose intorno erano state create giusto per noi due e basta e giusto giusto in quel momento. La cosa che ricordo ogni giorno è che la Pillicusa, senza dire niente, così vestita com’era, s’è tuffata dallo scoglio accanto a quello dove ero seduto e poi è venuta fuori dall’acqua con la testa e ha guardato nella mia direzione. E io lo so come m’ha guardato.”,

mentre leggi e non te ne accorgi. 

Poi torna brusca la realtà, la violenza, il male appunto.

E ti disturba da morire, non avresti voluto provarla e dimenticare per un attimo di chi e di cosa stai leggendo.

Ma Roberto Mandracchia è bravo e sa trasmettere potentemente l’una e l’altra cosa.

E scrive pagine come fossero giorni in un casale sperduto di campagna. 

Conti insieme a lui le albe, i pranzi, le ore buie della notte, i dolori, le pastiglie per la prostata, i silenzi.

Leggi i pizzini, ascolti i ricordi, vivi l’azione, così, dal nulla.

E poi finisce, come doveva finire.

E poi, c’è Cagnolazzo. C’è Cagnolazzo?

E vorresti saperne di più. Ma di più non c’è e ti accorgi che è giusto così.

Allora.

L’ho ritrovato il Mandracchia che anche con umorismo dice la realtà ed è un’altra volta conquista, un’altra nuova, bella lettura. 

Un’altra volta, diversamente genio. 

© Erika Carta

I miei amici, Cormoran e Robin

I miei amici, Cormoran e Robin

In quattro mesi ho letto “Dieci anni con Strike e Robin”.

È successo da Aprile, complice la giornata “Iglesias come Hogwarts” e la chiacchierata con Massimo Battista, sul suo libro “Collezionare Harry Potter e altri libri di J.K.Rowling”. 

Ancora qualche sera prima, alla cena informale insieme ad altri ospiti della Fiera del libro di Iglesias, Ele è praticamente corsa da me: “Non hai capito! Massimo mi ha detto che dobbiamo assolutamente leggere i gialli della Rowling sotto lo pseudonimo di Robert Galbright!”

E quando un lettore dice a un altro lettore… “assolutamente” non ci si può tirare indietro. Come fosse un patto tacito e segreto, una promessa da mantenere. 

Così è.

E qua devo subito mettere in campo la mia totale sincerità: non lo sapevo. 

O meglio, avevo forse sentito vagamente questa notizia ma temo di non averle dato peso.

Ricordo che dopo Harry Potter, lessi “Il seggio vacante” e ne rimasi piuttosto delusa. 

Ma Hogwarts e la sua magia avevano appena scavato e insieme riempito tutto un mondo dentro di me e per lungo tempo non ci fu posto per null’altro.

Poi nel dolce amaro capodanno del 2020 con il coprifuoco alle dieci e a letto poco dopo la mezzanotte lessi il mio primo libro del nuovo, atteso anno: “L’Ickabog”. 

E tornai a innamorarmi di lei.

Così fu per “Il maialino di Natale”.

La J.K. Rowling che conoscevo. 

Quella che dietro ogni grande storia, ogni piccola parola, nasconde un significato che diventa tuo per forza. Chiunque tu sia. 

Qualche giorno dopo la Fiera, sono finita nell’abbraccio della Libreria Mondadori, da Stefy e Lella e il caso ha voluto che avessero il secondo libro di questa serie di gialli di Robert Galbright: “Il baco da seta”.

Titolo accattivante, trama fitta di misteri, indagini, messaggi subliminali legati a scrittori e case editrici, truculenti omicidi che ho buttato giù solo per loro… Cormoran Strike e Robin Ellacott. 

La mia follia nuova di zecca, la mia rovina. 

Tra ordini e regali sono arrivata al punto in cui mi trovo adesso. 

Luglio di un’estate che non è estate e sei libri, su una mensola dedicata, che in questi mesi hanno completamente assorbito la mia attenzione di lettrice. L’ultimo, il settimo, è in lettura. Ne scrivo ora perché credo che una volta finito dovrò fare i conti con un po’ di vuoto.

Solitamente leggo vari libri in contemporanea.

Robert Galbright mi ha fatto riscoprire la possibilità che qualche volta, semplicemente, non è fattibile. Non può funzionare. 

E ora vi spiego il mio perché.

Li avrei letti con lo stesso trasporto se non avessi saputo che a scriverli è stata la mia Regina J.K. Rowling? Li avrei letti?

Non lo so.

Quello che so è che, avendo questa consapevolezza, l’ho riconosciuta dalle prime pagine. L’ho sentita nelle minuziose descrizioni di ogni cosa. I luoghi, che pare di avere davanti, dentro, dove sembra di camminarci, posti a cui appartenere. 

Le trame zeppe di dettagli che possono sembrare insignificanti ma che alla fine si incastrano alla perfezione, srotolando sempre il bandolo della matassa.

Ma soprattutto, i personaggi.

La Rowling, se proprio vogliamo continuare con la sincerità, ha un po’ la pecca di essere ripetitiva. Difetto che si trasforma in pregio quando cominci a capirne il perché.

E lo fai, collegandoti inevitabilmente alla storia di Harry Potter… e di Hermione, Ron, Silente, McGranitt, Sirius, Piton e via discorrendo.

Questi personaggi, che sono entrati nell’immaginario collettivo, ne sono anche usciti… per viverci a fianco. 

Non possiamo dire il contrario!

Sappiamo tutto di loro, ne facciamo spesso riferimento quando accade qualcosa nella nostra realtà.

E così è per i miei nuovi amici, Cormoran e Robin, appunto. 

Li descrive in continuazione, tanto da imparare a memoria che lui, corporatura da ex pugile, naso storto, capelli che sembrano “peli di pube” e lei capelli biondo rame, occhi grigio azzurri; oppure che a lui tira il tendine del ginocchio alla base del moncone perché ha perso una gamba quando è saltato in aria nell’esercito e lei si sente sminuita quando sta con Matthew ma è lui ad esserle rimasto accanto dopo quello che le è accaduto all’università.

Ed è questo: un attimo prima te li sta appena presentando e l’attimo dopo hai letto millemila pagine e li conosci intimamente.

Ti attacchi alle loro vite, ai pensieri, ai luoghi che frequentano, Denmark Street, il Tottenham e vuoi sederti con loro a bere una pinta di Doom bar e un bicchiere di vino rosso. E prendere la brutta abitudine di fumare Benson & Hedge e bere il the a ogni ora, forte, ambrato… del colore giusto come solo Robin lo sa fare.

Eccolo l’arcano segreto, quello per cui non so se li avrei letti altrimenti… ma li ho letti.

Perché li ha scritti lei. 

Robert Galbright è J.K. Rowling. 

Mi basta e avanza e questa è la sua grandezza: prendere un bel pezzo di qualche suo mondo e donarlo per intero a chiunque legga le pagine dove, con magia, lo ha trasposto.

©Erika Carta

ATTENZIONE

ATTENZIONE


Oggi, 26 aprile, si è conclusa la IX Edizione della Fiera del Libro di Iglesias.

No, non ho sbagliato.

Lo so bene che le date canoniche vanno dal 22 al 25, che i giorni sono quattro.

Ma è nelle ore della mattina successiva che finisce veramente ogni edizione.

Devastati di stanchezza ci trasciniamo ancora una volta lì, in Piazza Pichi, dove pulsa questo cuore che irradia la sua linfa in vari altrove vicini e lontani, oltremare. 

Rimane qualche sedia da sistemare, casette da svuotare, scatoloni e macchine da riempire. 

Viaggi carichi alla Sede di Argonautilus che tutto conserva e presto restituisce.

E per fortuna c’è sempre qualche ospite che ancora non è partito. 

Io li guardo, mi fermo e vedo i miei colleghi Argo… i miei amici, che si muovono da una parte all’altra con l’adrenalina da smaltire.

Ed è lì che mi rendo conto.

Mi rendo conto che anche questa Fiera è esistita davvero, che ce l’abbiamo fatta una volta ancora seppure in qualche momento abbiamo temuto di no.

Come ha scritto la nostra Stefania, della Mondadori di Iglesias… siamo Argonauti, mica extraterrestri. (Anche se ho l’impressione che ci andiamo molto vicini.)

Questa mattina, per esempio, gli ospiti superstiti erano tre librai da Torino, Barcellona e Trieste e ognuno di loro è anche tanto più di un semplice “venditore” di libri. 

Erano lì, su tre sedie vicine a parlare fitto fitto e io gliela scorgevo quella luce che vedo sempre dentro gli occhi di tutte le persone che vengono da noi alla Fiera e si scambiano numeri di telefono insieme a pensieri e sensazioni. Creano contatti e sono ben intenzionati a mantenerli.

Ci abbracciano quando arrivano, ci dicono “grazie” e “complimenti”, sorridono, brindano a noi e con noi.

Ci abbracciano quando se ne vanno.

E ormai, più d’uno rivolge uno sguardo attento, pronto a chiedere: “Hai bisogno di aiuto?”

Attenzione.

Questo era il tema del 2024, comune a tutti i festival della Rete Pym.

Devo essere onesta: non l’ho compreso nell’immediato quanto poi mi si è dipanato davanti agli occhi e dentro la pelle, durante l’organizzazione e in questi giorni appena trascorsi.

Attenzione: parola che porta con sé molteplici significati, alcuni così semplici da sembrare scontati. Ma non sia mai! È proprio la profondità di questo concetto che abbiamo sviscerato negli svariati incontri che hanno letteralmente riempito dal vivo piazze, bar, teatro e virtualmente radio e social.

Attenzione alla Terra.

Attenzione al Libro e al diritto d’autore.

Attenzione alle scuole.

Attenzione alla Libertà.

Alle parole da usare, ai gesti, alle sensibilità che albergano dentro ognuno di noi.

Attenzione: parola che porta con sé anche il suo contrario: Disattenzione.

Perché sì, esiste anche quella. Eccome se esiste.

Ma, come ho appreso poc’anzi dalle parole di un caro amico… “In un mondo di moralisti della domenica che parlano e parlano e parlano ma non fanno mai un cazzo di vero[…]non cercare mai compassione e vittimismo è l’unico modo di zittirli. In un mondo di pagliacci che si esibiscono senza nemmeno chiederti i soldi del biglietto, è solo respirando la strada che si può arrivare alla persona, ovvero allo scheletro, all’uomo in purezza.

Lo scheletro, esatto, le ossa: ecco cosa mi interessa. Chi fa la morale, chi non è capace di autocritica, chi non è meritorio di altra risposta se non un assordante silenzio, semplicemente, può andarsene a fare in culo lontano dalle mie parole, che sono la cosa più importante che ho essendo l’unica cosa.

Ed ecco perché non userò le mie parole per la disattenzione. 

Non mi interessa.

Può volare via come “la foglia”.

Perché oggi sono sì malinconica (ancora non come lo sarò nei giorni a venire) ma soprattutto sono colma di amore dato e ricevuto, sono fiera, grata e felice. 

Sempre.

Ed è per raccogliere le mie emozioni e dire questo, solo questo, che scrivo. 

La mia gioia, ho scoperto in un tavolo in mezzo al verde sotto un cielo clemente, profuma di mandarino. 

Il tempo della Fiera del Libro di Iglesias è sempre un po’ strano, sembra muoversi infinitamente piano e smaterializzarsi dal momento in cui si dice: “Benvenuti alla prima Colazione d’autore” a “Grazie al Circolo Musicale Verdi per l’evento conclusivo.”

Ogni volta che finisce è come un po’ “morire”, ma noi Argonauti non sappiamo fare niente di meglio che rinascere dalle nostre ceneri… come la Fenice.

Dimentico qualcosa? 

Ah sì, giusto la giornata “Iglesias come Hogwarts.”

Mi dispiace ma se proseguissi qui, poi dovrei cercare un editore per pubblicare questo che diventerebbe un romanzo.

Per cui sappiate che devo ancora metabolizzare a lungo, prima di scriverne.

“Tu sei un mago Harry.”

“Io sono… cosa?”

“Un mago! Un mago coi fiocchi direi, una volta studiato un pochetto.”

“Non posso essere un mago, voglio dire… sono solo Harry… solo Harry!”

© Erika Carta

E venne il Natale

E venne il Natale

Perfino Novembre, a parer mio il mese più triste dei dodici, ogni volta se ne va. E lascia arrivare Dicembre che gentilmente porta scintille di magia di giorno in giorno, fino a esplodere intorno al 25. 

Io, la magia, l’ho vista da bambina. L’ho vissuta fuori e dentro e lì è rimasta, a crescere con me. Attaccata con tutta l’energia possibile per non scivolare via, impegnata a esplorare sempre nuove vie non potendo, ahimè, tornare su quelle percorse.

È un carico importante, necessario. 

Tra le tante cose che rilucono, ce n’è una che non è un diamante, non è un festone colorato, non è una lampadina intermittente.

Ormai è diventato come un appuntamento fisso, lo aspetto da svariati anni, ogni Dicembre.

Non è un gioiellino ma è come se lo fosse. 

È un libro, naturalmente.

È piccolo, con la copertina bianca e dei cerchietti satinati che riflettono l’esterno. È così che si crea il gioco di luci che pare lo faccia brillare.  

I nomi degli autori sono scritti in nero e il titolo in un bel rosso e ha, da un lato, un disegno un po’ vintage, sempre diverso che ricorda le vecchie cartoline di auguri per Natale.

Sto parlando dei libri della collana “Natale ieri e oggi” della Graphe.it, la casa editrice umbra che recentemente è diventata maggiorenne. 

Dentro queste pagine c’è sempre una poesia, un racconto del passato e un racconto di un autore o di un’autrice del presente. 

(Un po’ come le visite che riceve Scrooge, tolta quella del futuro!)

Quest’anno, la poesia è “Le ciaramelle” di Giovanni Pascoli.

“suono di chiesa, suono di chiostro, 

suono di casa, suono di culla, 

suono di mamma, suono del nostro

dolce e passato a piangere di nulla”.

Il racconto del passato è dello scrittore e giornalista Paolo Valera, vissuto tra il 1850 e il 1926, che si fa testimone realistico della vita dei più bassi strati socialie ci parla del giorno di Natale dentro al riformatorio di Finalborgo. 

La tristezza di Natale” che si sente in ogni parola ma che lascia spazio a episodi di gentilezza e commozione, insieme a un barlume di speranza.

“Non sono dunque completamente perduti. Credetemi, l’uomo che ha ancora la rugiada del cuore, è ancora un essere redimibile. […]Te lo giuro sull’anima mia: non dimenticherò mai questo momento del Natale in galera. È un episodio che mi resterà nella memoria in eterno. Mi hanno intenerito come un fanciullo.”

Nel racconto di Eleonora Carta, invece, mi rendo conto soltanto ora mentre lo scrivo, il titolo rende l’idea di cosa è narrato e da dove, esattamente, arriva… “Dal profondo”.

Se vi farà lo stesso effetto che ha prodotto in me, vi ritroverete a leggere un po’ guardinghi l’inizio per poi proseguire con curiosità, arrivando a un punto in cui non è più possibile fermarsi e in apnea, seguire una scia di luce fino alla fine. 

E scoprire che no, non è la fine. Anzi.

“Non ho bisogno di respirare e questa non è apnea ma un nuovo modo di essere. Lo stesso, provo la necessità di salire verso l’alto, e con una foga sconosciuta, perché è la mia mente, non i polmoni, ad avere bisogno di aria.[…]

Ascolto la notte e l’unica cosa che mi giunge alle orecchie è il grande respiro collettivo di queste creature che mi abbraccia nel suo inspirare ed espirare e l’aria è colma di calore e del flusso di luce che discende dal cielo[…]

Quello che mi ha lasciato la lettura di questi racconti, in una notte di Dicembre, è la sensazione che molto più spesso di quanto riusciamo ad ammettere, l’essere umano è il peggior carceriere di sé stesso. Sarebbe molto meno doloroso accettare le cose fatte nuove semplicemente per quello che sono: soltanto… nuove.

E mi hanno fatto riflettere sul fatto che certe volte, l’unica, necessaria scelta da compiere è quella di credere fortemente in qualcosa. 

E venne il Natale.     

Nella città invisibile

Nella città invisibile

Prendo in prestito un concetto che è stato il fulcro sotteso della trascorsa edizione della Fiera del Libro di Argonautilus: il luogo. Inteso come spazio fisico e come identità. Meta di partenza, passaggio, arrivo e nostalgia. Specchio e lingua dove riconoscersi.

E si sa, per muoversi nei luoghi servono le mappe.

Ora, una domanda: come ci si orienta in un posto invisibile?

Italo Calvino ce l’ha raccontato attraverso i dialoghi tra Marco Polo e Kublai Can.

E Gianmarco Parodi, invece, ci ha raccontato Italo Calvino portandoci “Nella città invisibile”. 

Fresco di stampa, il suo nuovo lavoro edito da Piemme, ha come sottotitolo: “Viaggio immaginario nei luoghi calviniani”.

Io, Sanremo non l’ho mai vista. Come non ho mai visto di persona “i sentieri dei nidi di ragno” o l’albero de “il barone rampante”. Ma vi assicuro che ci sono appena stata, non l’ho soltanto immaginato.

Sì, sì, esattamente.

Il viaggio è cominciato dalla banchina in fondo al vecchio porto. Tra cancelli, albe, tramonti, domande e risposte ho camminato, insieme a chissà quanti altri avventori nella città di questo ragazzo, Gianmarco, che immagino calcare le orme di un gigante della letteratura, con rispetto e coraggio. Zaino, libro in mano e occhi pieni di meravigliosa attenzione.

Così, non sentiamo solo parlare del Calvino scrittore ma anche del Calvino uomo. Certo, io mi chiedo se debbano per forza essere due entità distinte e no, la risposta che trovo di riflesso tra queste pagine è: no. Tutt’altro.

[…] alla fine la vita privata e l’opera di uno scrittore non sono poi così distanti. L’una si nutre dell’altra[…] trasformando entrambe in oggetti  tanto visibili quanto invisibili. […]

Chi scrive trova il modo di parlare di sé, sempre. 

Forse, si può scambiare posto ai fatti, aggiungere un tratto a una persona, toglierlo a un’altra. Disseminare indizi tra le righe. E anche io sono certa che ogni parola raccontata affondi le sue radici nell’infanzia. Che poi evolve come fa la vita stessa.

E cos’è che si mantiene vivido con maggiore intensità nel cuore di un bambino? Di un ragazzo? Anche e forse, soprattutto, quando ci si allontana?

I luoghi… e chi li ha abitati, naturalmente.

Così grazie alla sua scrittura, trasparente come lo specchio d’acqua su cui torniamo sospesi, possiamo vedere anche noi la Sanremo di Calvino ma anche quella di Gianmarco e dentro… tutte le città possibili. 

Erika Carta

FieraOFF: Antonio Boggio “Delitto alla Baia d’Argento”

FieraOFF: Antonio Boggio “Delitto alla Baia d’Argento”

Circa un anno fa, era luglio, feci la conoscenza di un commissario di polizia arguto e sensibile, Alvise Terranova.

Si occupava di un “Omicidio a Carloforte”, muovendosi tra la vita e la morte di un parroco misterioso, tra colazioni abbondanti senza cui la giornata non poteva cominciare, i dischi di Tom Waits, il buon vino, il passato prossimo, le donne.

Tutto avveniva dentro le pagine profumate di un libro, edito da PIEMME e nato per mano o meglio, per penna di Antonio Boggio. 

Dopo legittima attesa, il Commissario Alvise Terranova è tornato a noi, avidi lettori.

Insieme a lui emerge di nuovo, dal mare, la nostra isola nell’isola che si fa sempre più grande, sempre più vicina, come vista dall’arrivo in traghetto.

“Erano le otto e quaranta, il sole era appena tramontato ma il nero della notte non aveva ancora coperto lo specchio di mare tra le braccia del porto. I lampioni appena accesi sembravano smarrirsi in quell’atmosfera ovattata dove il giorno non se n’era ancora andato del tutto. Le automobili si susseguivano sul lungomare, la gente a passeggio sembrava attraversare un filtro pastello in un film noir anni cinquanta.

E mentre il solito allevatore paesano denuncia il furto delle solite sette galline, a Carloforte, dove non succede mai niente, succede invece che un uomo viene trovato morto.

Si tratta questa volta di un imprenditore, Giulio Mazzini, il cui corpo viene scoperto da alcuni operai una mattina di luglio, sotto le macerie di un Hotel prossimo alla demolizione.

L’Hotel Baia d’Argento.

Si apre così la vicenda madre attorno alla quale si snodano i personaggi del U Paise con le loro vite intrecciate e ogni elemento, anche il più insignificante, collegato a un altro e a un altro ancora fino a quando tutti i nodi si sciolgono, la trama si dipana e il caso viene risolto.

Ma, come ogni volta che mi accingo a leggere un giallo, ciò che mi tiene incollata alle pagine non è mai questo.

Non me ne vogliano, i lettori giallofili, né lo stesso autore se esprimo con solerzia che non mi importa chi sia l’assassino! 

A onor del vero ho seguito le indagini e i ragionamenti del Commissario e della sua squadra come fossi lì, con loro. Ho provato, come faccio sempre, ad anticipare la soluzione, cercando indizi nascosti tra le righe, mai certa del risultato fino alla fine.

Ma, ripeto, c’è dell’altro se leggo quattrocentoventi pagine senza rendermene conto, da una notte all’altra, interrompendo di tanto in tanto per un lieve bruciore agli occhi.

È come quando ci si disinteressa della meta di un viaggio perché bello, è il viaggio stesso.

Così, con questo Delitto alla Baia d’Argento ho ritrovato con gioia una vecchia conoscenza, Alvise. 

Umano in ogni sfaccettatura, così caratterizzato da riconoscerlo familiare dopo tempo.

Capace, determinato sul lavoro, critico e ironico con sé stesso e con gli altri. 

Ci sono state scene comiche in cui ho immaginato la reazione del suo viso, come fosse amico mio.

Questa volta ci ha altresì permesso di scavare più a fondo nell’anima della sua persona, nel passato remoto, sovrapponendo al presente ricordi pieni di quella nostalgia agrodolce che è tipica degli anni novanta (forse perché la provo anche io!)

Nei suoi ricordi ora poteva vedere le biciclette sfrecciare, le ginocchia sbucciate, i copertoni roventi sul cemento accidentato. Allora l’entusiasmo era una cosa semplice.

Ci ha consentito di entrare in punta di piedi nella notte che si porta dentro. 

Ma sapete? Si dice spesso, per chi è troppo allegro, che c’è sotto qualcosa. 

Non sono più d’accordo. 

Non si deve nascondere proprio un bel niente.
Chi ha luce, ha buio.

E sono uno al fianco dell’altra.

Ed è questo, forse, che rende persona il personaggio di un libro e tangibile tutta la sua storia, passata e presente.

Aveva sempre diviso la sua vita in due parti, un po’ come i vinili o le musicassette. C’era il lato A, quello fino a 14 anni, la sua vita a Carloforte prima della partenza per Genova. E poi c’era il lato B, che andava da quel momento in poi. Si domandò se magari ci fosse anche un lato C, il ritorno a Carloforte, l’autunno precedente. Oppure un immaginario demiurgo aveva rigirato il disco sul lato A e lui era tornato a vivere in quella dimensione spazio-temporale che gli sembrava lontanissima?”

© Erika Carta