Maicolgècson, una storia di scoperta e crescita

Maicolgècson, una storia di scoperta e crescita

di Maria Francesca Carboni

Ci sono più momenti nella vita in cui potremmo essere chiunque. Uno di questi è la prima infanzia. E subito dopo l’adolescenza. Anche se le ricerche scientifiche dicono che questa capacità di cambiare per diventare chi vorremmo essere, in realtà, duri tutta la vita e dipenda dalla plasticità del nostro cervello e dalla ricchezza delle esperienze vissute. 

Paola Soriga, con il suo romanzo Maicolgècson (Mondadori), sembra voler parlare di questa speranza: il costante mutamento che, infine, approda alla scoperta di sé. Il cambiamento in questo caso riguarda le imprese di una bambina che diventa ragazza, adolescente. E durante la crescita scopre la sua strada, fra le infinite possibili. Più di un destino, la storia di Remigia, in arte Maicolgècson, è la costruzione corale di un cammino condiviso. 

I suoi maestri sono star della musica. Prima di tutto Michael Jackson, a cui deve il nome, per via di quei capelli ricci, fitti fitti, come lana d’acciaio. E Maicolgècson è “su nomingiu”, il soprannome, che zio Stefano le dà appena nata. 

Poi ad ispirare Remigia durante tutto il racconto sono i suoi parenti, le nonne, gli zii e le zie, i cugini. Ma soprattutto i suoi “didini”, il padrino e la madrina del battesimo, figure eclettiche, fuori dagli schemi, che di quel potenziale vedono tutti i possibili risvolti, come dei veggenti. E per questo lo coltivano, lo stuzzicano con affetto. 

Mike, così si farà chiamare Remigia dai suoi amici, ad un certo punto, la strada del suo futuro la intravede. Vuole cantare. E poi vuole ballare. Lo scopre crescendo. E anzi forse vorrebbe tutto: ballare e cantare come se fossero un’unica cosa.

Paola Soriga racconta la storia di una famiglia uguale a tante, ma diversa nel modo singolare di vivere la quotidianità. Le storie del vicinato allargato si intrecciano con quelle di Remigia bambina e poi adolescente. Ci sono i parenti stretti, i parenti che abitano in “continente” e tornano solo per le vacanze estive. Poi i vicini di casa, gli amici dell’estate. I ragazzi grandi che vanno e vengono, fidanzati e fidanzate dei suoi padrini di battesimo. 

La finestra da cui Remigia ammira il mondo contempla orizzonti vicini e lontani. I più noti, quelli della sua famiglia, sono i loggiati delle case campidanesi in cui studia canto o gioca con i cugini e cugine a casa dei nonni. I cortili e giardini della campagna cinta da filari di fichi d’india e frutteti. Il roseto che il padre di Remigia coltiva per la madre della ragazza. I palazzi bianchi di Cagliari, il mare piatto e limpido come se qualcuno lo avesse pulito con il Vetril. Il dialetto sardo campidanese che segna i confini dell’esperienza familiare di Remigia e diventa pratica, consuetudine, azione, un modo di essere e agire difficile da restituire in altre lingue.

Invece gli orizzonti lontani sono tracciati dai suoi idoli, dai cantanti a cui si ispira: Eros Ramazzotti, Laura Pausini, i Queen, I Nirvana. Sono i mondi musicali conosciuti grazie a zio Stefano (e non solo). Ma sono inoltre le esperienze di vita che varcano la pianura del Campidano e arrivano addirittura a Londra, dove abita la didina Gina.

Remigia, quindi, cresce e scopre l’amicizia, l’amore, le delusioni. E più di tutto sé stessa. Rivendica con tenacia quello che le appartiene: la sua vita, così come lei è riuscita ad immaginarla fino ad allora. Tanto che il desiderio infine prende forma. Perché Remi – così si farà chiamare arrivata alle superiori – continuerà a danzare e cantare, orgogliosa dei suoi talenti. 

Maicolgècson di Paola Soriga racconta una storia particolare e universale allo stesso tempo. Questa storia potrebbe essere ambientata ad Uta, Assemini, Siliqua perché “i paesi si somigliano, forse in tutto il mondo e certo qui da noi”, come dice l’autrice. Quindi se le vicende raccontate sono certo particolari, ciò che di universale rimane è l’intrecciarsi dei sentimenti intensi, a volte contrastanti, estremamente umani, che Remigia restituisce attraverso i suoi occhi, facendosi portatrice della sua storia e di quella degli altri.

Un cuore logorroico
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Un cuore logorroico


Dove stanno le parole? 

Ne è piena la mente. 

Ho l’immagine di stringhe di lettere che circolano e si incrociano di continuo, all’altezza delle tempie.

Nella mano, che guida la penna a portarle via, per depositarle su un foglio. 

Ma posso dire, con certezza quasi assoluta, che a farle nascere ci pensi il cuore. 

Tanto più se è un “Cuore logorroico” come quello di Stefania Congiu, che (finalmente) ci regala la sua seconda raccolta di poesie.

Sono altrettanto sicura che nel momento in cui lo leggerete, ci sentirete anche il vostro di cuore, dentro. In questo spazio condiviso e paradossalmente silenzioso come soltanto un libro riesce a essere. 

Molto spesso si suole fare confronti tra i libri di uno scrittore. E così, immancabilmente, penso a “L’elefante tra gli ombrellini” dove Stefania scattava parole, scrivendo fotografie così nitide che sembrava si animassero davanti agli occhi.

Ora abbiamo questo cuore, che ha come cambiato prospettiva.  

Legato profondamente alla natura della nostra Terra, alla lentezza, a chi… per forza di cose ha dovuto osservare molto più dentro, che fuori. 

Così, è parso a me. 

Ma si sa, le parole, soprattutto quelle in versi, hanno l’enorme potere di uniformare o ramificare i pensieri, in un terreno da spartire tra chi scrive e chi legge. 

Io, sono grata a Stefania per aver trovato il coraggio, una seconda volta, di donare a noi le parole del suo cuore logorroico. 

Spero tanto lo sia anche lei, per essere riuscita a lasciarle andare.

Di chi scrive

“Si sentono arrivare 

come onde improvvise, 

non hanno barriera.

Si prova a scansarle

ad allontanarsi 

a non ascoltare.

Delle volte sono leggere, 

altre pesanti.

Non si lasceranno mettere a tacere, 

devono avere parole.

Serve uno spazio vuoto, 

spesso servono silenzi 

per i turbamenti di chi scrive 

schiavo di emozioni e impressioni 

che anche solo un altro 

a leggere possa riconoscere”.

Un cuore logorroico

Stefania Congiu

Erika Carta

A Carlos Ruiz Zafón

A Carlos Ruiz Zafón

Non è semplice spiegare il legame che si crea tra un libro e il suo lettore. 

Chi parla questa lingua codificata, sa bene cosa intendo.

E immancabilmente, la persona che il libro l’ha scritto, entra di diritto in quella cerchia di amici stretti, strettissimi, che non c’è bisogno di essersi mai incontrati per aver speso insieme un tempo che non ha eguali.

Ecco perché, quando giri l’ultima pagina, senti che quell’amico ti mancherà da subito e che, allo stesso tempo rimarrà per sempre con te.

“Non so dire se dipese da queste riflessioni, dal caso o dal suo parente nobile, il destino, ma in quell’istante ebbi la certezza di aver trovato il libro che vi avrei adottato, o meglio, il libro che avrebbe adottato me. Sporgeva timidamente da un ripiano, rilegato in pelle color vino, col titolo impresso sul dorso a caratteri dorati. Accarezzai quelle parole con la punta delle dita e lessi in silenzio.

JULIÁN CARAX 

L’ombra del vento”.

È di pochi giorni fa la terribile notizia della prematura morte di Carlos Ruiz Zafón, lo scrittore spagnolo che ha portato tutti noi a camminare in una notte in cui “i lampioni delle ramblas impallidivano accompagnando il pigro risveglio della città, pronta a disfarsi della sua maschera di colori slavati”. 

L’uomo che ci ha fatto fermare “davanti a un grande portone di legno intagliato, annerito dal tempo e dall’umidità […] il cadavere di un palazzo, un mausoleo di echi e di ombre […] un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi con scaffali altissimi zeppi di libri, un enorme alveare percorso da tunnel, scalinate, piattaforme e impalcature: una gigantesca biblioteca dalla geometria impossibile”.

Il Cimitero dei Libri Dimenticati.

Mi vengono i brividi ogni volta che lo leggo, lo sento, ne parlo. Come fosse la prima volta, quando piena di meraviglia lo scoprivo tramite gli occhi di un quasi undicenne Daniel Sempere.

Davvero mi riesce complicato trovare parole per dire in quanta magia mi sia imbattuta, percorrendo queste pagine. 

E non si tratta solo di un libro che parla di libri o di storie avvincenti e misteri da svelare. 

Zafón è tanto di più.

In tutte le sue opere, ogni personaggio dismette tali abiti, diventando semplicemente una persona. Così ben caratterizzata, così umanamente sfaccettata, che è impossibile passare oltre. 

“Non sapevo ancora che, prima o poi, l’oceano del tempo ci restituisce i ricordi che vi seppelliamo. Quindici anni più tardi, mi è tornato alla mente quel giorno. Ho visto quel ragazzo girovagare nella bruma della stazione Francia e il nome di Marina si è infiammato di nuovo come una ferita recente. Tutti custodiamo un segreto chiuso a chiave nella soffitta dell’anima. Questo è il mio”. 

Come Marina, fiamma di luce in un paesaggio tetro e sinistro.

La smania di leggere fino all’ultima parola freme chiassosa eppure ogni vita raccontata lì dentro, ogni legame, ogni luogo, ti si attaccano addosso con lentezza, in profondità.

“Possedeva uno strano fascino che seduceva in modo lento ma inesorabile”.

Storie di coraggio, storie dove l’amore illumina costantemente il percorso e l’amicizia tiene in vita società segrete, anche dopo che si sciolgono, come la Chowbar Society.

“Lì eravamo cresciuti senz’altra famiglia che noi stessi e senza altri ricordi che le storie che ci raccontavamo intorno al fuoco a notte fonda, nel cortile della vecchia casa abbandonata che sorgeva all’angolo tra Cotton Street e Brabourne Road, un casermone in rovina che avevamo ribattezzati il Palazzo della Mezzanotte”.

I libri di Carlos Ruiz Zafón sono una scossa elettrica la prima volta che ti imbatti in loro. Scrigno di meraviglie a cui tornare infinite volte sentendosi come a casa di un amico fedele.

Le parole sopravvivono a ogni male del mondo, creando unioni profonde che vanno oltre i confini.

L’unico pensiero che si affaccia alla mia mente è questo, e te lo dedico, amico:

“Vivrai per sempre. Grazie.”


FieraOFFWEB Estate2020

Riprende domani 15 giugno la #FieraOFFWEB Estate2020.
Fino al 15 agosto, sui nostri canali social, con contenuti video, audio, dirette web, articoli, recensioni, illustrazioni, musica tutti pensati per portare i libri nella vostra quotidianità, e sempre con l’obiettivo di sottolineare il valore sociale dei libri quale elemento chiave della crescita personale, culturale e civile.
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foto di ArgoNautilus.
Mercoledì di Argonautilus – Dentro la borsa

Mercoledì di Argonautilus – Dentro la borsa

Aveva bisogno di pensare a qualcosa di bello. Era un trucco che aveva inventato da bambina, chiusa nella sua stanza, per scacciare la tristezza […]

Allora prendeva il suo diario e raccontava qualche episodio appena vissuto, sottolineando solo le parti belle”.

È come vedere il “bicchiere mezzo pieno”, no? Anche se, in questo caso, posso esprimere con certezza che non si tratti di un bicchiere, ma di una borsa, “un insieme di velluto rosso, orbace, lana, pelle e broccato che, nei toni del nero con i ricami bianchi, ricordavano i tappeti sardi”, e di tutto quello che c’è dentro.

Ed è veramente tanto, per stare chiuso lì, stipato. Le cerniere non chiudono, il tessuto si strama, l’involucro si deforma.

È così che questo contenuto si riversa in parole, tra le pagine di un libro.

“Dentro la borsa” di Francesca Spanu.

Di cosa parla? 

“Di aborto”, ho sentito dire qualche tempo fa.

“Di un bambino che si è perso”, dice Ele , con attenta e sensibile interpretazione filtrata dai suoi cinque anni, che disegnava mentre l’autrice si raccontava, alla presentazione. 

E io, prima ancora di addentrarmi tra le righe che mi avrebbero svelato le vite di Lidia e Cristina, ho capito che non sarebbe stato solo questo.

Ho sentito due parole che mi sono bastate per intraprendere questo viaggio: amore e libertà.

Due aspetti imprescindibili uno dall’altro, aridi se presi singolarmente, rigogliosi se tenuti assieme dal filo della consapevolezza.

Si tratta di scelte. Subite, sepolte sotto strati di apparenza, egoiste, mascherate. 

E poi di scelte compiute. Difficili, sofferte, d’amore, protettive, altruiste, libere… CONSAPEVOLI. 

Non per questo senza conseguenze, tutt’altro. 

Non stare ferma, reagisci. Utilizza il danno che hai subito come risorsa, è questa l’unica strada. Usa questa sofferenza per capire cosa vuoi davvero dalla vita. Sì perché devo dirtelo, finora hai vissuto la vita che altri volevano per te. Approfitta di questo dramma per essere ciò che vuoi essere tu”.

Piedi inchiodati al fondo, piedi che raschiano fino a staccarsi. E poi spinte. Verso l’alto, verso fuori, alla luce… proprio come venire al mondo, di nuovo. 

Tenere la propria vita tra le mani, guardarla rinascere, incedere, divenire. 

È questo che io ci ho letto. Riflessiva, ma emozionata, vorace nello scorrere le pagine, così come divoro i giorni davanti a me. 

“Sii contenta di essere libera, libera di cambiare idea e andare dove desideri, molte persone non lo sono e non sono in grado di combattere per la cosa più importante, il diritto di essere liberi”.

©Erika Carta

Giorno della Memoria della SHOAH

Giorno della Memoria della SHOAH

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria della Shoah, Argonautilus e Fiera del Libro invitano la cittadinanza a partecipare a un incontro di riflessione e approfondimento storico filosofico a cura della professoressa Federica Musu, ispirato dal libro di Hannah Arendt “La banalità del male” (Feltrinelli).

Appuntamento lunedì 27 gennaio 2020 ore 18:00 presso Sede di Argonautilus, Piazza San Francesco (ex scuole maschili) Iglesias.

FieraOFF: L’isola delle anime

FieraOFF: L’isola delle anime

La parola amuleto che mi hanno lasciato è: Ali.
Ha un suono bellissimo e così tante sfaccettature che però mi fanno pensare subito a due cose.
I sogni. E i libri.
Ed è su queste ali che ho viaggiato, ancora una volta, tra le parole di Piergiorgio Pulixi.
Ho volato alto nel cielo turchese e blu notte, ho sentito la salsedine sulla pelle e gli odori forti di macchia mediterranea. Sono entrata dentro una Sardegna di cui ho solo conoscenze marginali, come fossero leggende, riscoprendone ancora un volto nuovo, un’anima profondamente marcata in ogni suo confine.
Ho provato inquietudine.

“Non crede che sia proprio questo che la letteratura deve fare, inquietare?”
Antonio Tabucchi in Requiem.

L’isola delle anime, edito da Rizzoli.
Piergiorgio Pulixi, con magistrale bravura, riesce sempre a lasciare la sua di anima ai margini, prediligendo quella dello scrittore. Di colui che ascolta e raccoglie storie e senza giudizio dà voce a personaggi che diventano chiaramente reali, e raccontano.
Un romanzo, questo, intriso di femminilità con due figure quasi opposte, punti fermi e contrastanti ma allo stesso tempo complementari.
Mara Rais ed Eva Croce, due donne che vanno avanti, prendono decisioni difficili e importanti, riescono con forza e fragilità a sovrastare maledizioni antiche e nuove.
Morendo Barrali, un uomo che la maledizione ce l’ha dentro e lotta per venirne fuori.
E poi… i Ladu della montagna. Un popolo dentro il popolo, una comunità di persone legate visceralmente alla terra e ad ogni suo elemento. Difficile fino alla fine comprendere se questa è una storia che corre parallela o affonda nelle altre.

Piergiorgio Pulixi è stato ospite nella serata di ieri, alla Storytelling Libreria sala da tè di Gonnesa, abilmente allestita ad hoc per l’occasione, con la riproduzione della scrivania di Moreno Barrali e una cartina della Sardegna appesa in parete.
Ad accompagnare la narrazione, Eleonora, libraia e Federica, argonauta, entrambe con passione.
E il pubblico curioso e coinvolto, anime di lettori.

Questa sera, si replica a Iglesias, dove a ospitarci saranno Stefania e Antonella della libreria Mondadori.

Appuntamenti di imperdibile ricchezza.