ERA

ERA

Sul finire dell’estate di quell’anno ci incontrammo per la prima volta. 

Era il 2016.

Ci vedemmo di sfuggita, io ero arrivato da poco sull’isola, avevo sei anni. 

Correvo sulla battigia in costume, con i capelli castani lunghi e disordinati e le gambe bianche e smilze, sollevando spruzzi d’acqua e schiuma bianca, sabbia d’oro e risa.

Sullo sfondo si stagliavano alcune villette, una maestosa torre antica, il faro e molte rocce sedimentarie.

Venivo dalla città ma nemmeno i miei genitori o gli zii sapevano spiegarsi il perché di quel legame che sentivo con il mare. 

Un richiamo tanto forte che mi veniva da dentro e si agitava tutto negli inverni freddi che passavo a casa, affacciato alla finestra per scrutare un orizzonte che non c’era.

Ora, gorgogliava. 

E il mio sguardo nocciola sottile non riusciva nemmeno a pensare di acchiapparlo tutto. 

“Ma perché mai dovresti volerlo catturare?”

Mi suggerì una voce.

Era profonda come se arrivasse dagli abissi del mare, ma anche tiepida, come un soffio a pelo d’acqua.

Non avevo idea da dove provenisse.

Mi ero appena arrampicato su una roccia alta per guardare da più un alto, per avvicinarmi al mio elemento. 

Non vidi niente o nessuno che potesse avermi parlato, eppure quella frase mi aveva come frugato i pensieri, li aveva indovinati, resi vivi e smontati in un batter d’occhio.

“Vorrei tenerlo e portarmelo a casa, poi”.

Risposi, giustificando quel bozzolo di senso di colpa che si allargava dentro di me. 

E fu in quel momento che la vidi.

Affiorava piano dall’acqua, con portamento elegante. La testa grande e il rostro incurvato; rugosa e possente, si portava dietro la sua casa rossastra, sfumata di marrone scuro. 

Leggiadra, mi guardava.

Una tartaruga marina lunga quasi un metro e mezzo. Non ne avevo mai vista una in vita mia.

Non so dire se fu lei a perdersi nei miei occhi oppure io, a non rientrare mai più dal suo sguardo.

Fatto sta che l’aria divenne immobile, c’eravamo soltanto noi due e il mare che, indisturbato, suonava la sua musica. 

Com’era emersa, sprofondò nuovamente sott’acqua e soltanto quando mi mostrò il dorso mi scossi dall’impasse di meraviglia che mi aveva stordito e riuscii a gridare:

“Aspetta!”

“Io torno”. Disse.

“Me ne vado ma poi torno, sempre”.

Mi sembrava la promessa più bella che avessi mai sentito.

E così, tornai anch’io.

All’inizio dell’estate del 2017.

L’orizzonte lo avevo lasciato dov’era, perché era esattamente lì, che avrei voluto ritrovarlo.

Ero cresciuto appena dall’anno prima. Ben presto il mio fisico sarebbe cambiato: mi sarei asciugato ma irrobustito, le occhiaie scure sparite e la pelle bianca sarebbe divenuta un lontano ricordo. 

Andai dritto alla roccia e fissai per giorni il punto esatto in cui avevo visto la tartaruga.

Non venne quella settimana.

E nemmeno le restanti di giugno.

Ci rimasi male ma in un bambino di sette anni la delusione si rintana in un cantuccio dell’anima senza disturbare più di tanto, in quegli anni di spensierata gioventù. 

Feci amicizia con molti bambini e bambine della mia età, giocammo ogni giorno, costruendo castelli e fossati e mura di cinta. Raccogliemmo conchiglie con l’illusione che ci appartenessero per poi liberarle sulla riva. Era là che stavano bene.

Ogni tanto volgevo lo sguardo lontano, perdendomi per qualche istante.

Avrei dovuto aspettare agosto per rivederla.

I miei amici erano tutti partiti.

Questa volta, mi parlò che stavo sdraiato tutto solo sulla sabbia bagnata di una piccola caletta nascosta, facendo filtrare tra le dita quei pochi granelli asciutti che riuscivo a raggiungere.

“Sei felice”.

Mi disse. 

Non era una domanda.

“Come ti chiami?” 

Le chiesi.

Sembrava ci fossimo visti soltanto un attimo prima.

Si chiamava Era.

“Io sono Ricky”

“Lo so”.

Avrei giurato che sorrideva, come sorridono le mamme.

“Io non so un mucchio di cose”.

“Vuoi venire a fare un giro?”

“Come? Dove?”

“Sali”.

Mi indicò il carapace con un cenno della testa.

Balzai in piedi senza farmelo ripetere due volte.

Mi portò con sé, in mare, per il resto dell’estate.

Le chiesi se fossi pesante.

Rispose serenamente che non ero un peso, ma soltanto un valore aggiunto sul dorso dei suoi anni.

Mi parlò di ogni cosa. Di polpi e pesci.

Mi mostrò le rocce, illustrandomi la loro origine e l’evoluzione. 

Mi insegnò a stare in apnea, per vivere in profondità. 

La posidonia mi fece il solletico e il fondale si riempì di bollicine del mio ridere. 

Mi raccontò la storia di Medea e Giasone, dei suoi amici eroi, avventurieri. E della prima nave che, coraggiosa, si apprestò a solcare le acque:

“Si chiamava Argo”.

Sapeva davvero un sacco di cose.

Era saggia e mite.

“Ma tu dove vivi?”

Chiesi curioso.

“Io vivo qui. Ma anche più in là”. 

“E come fai a conoscere proprio tutto?”

“Sono nata sulla terra, proprio come te. Ma sento di appartenere a questo luogo”.

“Proprio come me”.

“Proprio come te”.

Forse era l’unica ad aver capito come mi sentivo.

Si percepiva persino nei momenti di silenzio e pace, come quello.

“Mi piace vivere nelle acque temperate, al sole che si riflette sulla superficie mandando i suoi bagliori fino in fondo. Giù, giù. 

Non sapevo nulla ma l’ho imparato viaggiando. Muovendomi e spostandomi, oltre i confini e le barriere, senza aver paura”.

“Sei una tipa solitaria?”

“Affatto! Ho tantissimi amici. E ho deposto un pezzetto della mia anima ovunque ne trovassi uno”.

“E io, un pezzo… lo posso tenere con me?

Te lo riporto l’anno prossimo”. 

Mi affrettai a dire, memore del monito che mi aveva lasciato in eredità l’estate prima.

Rise di cuore, muovendosi tutta e scuotendo anche me. Ridevo anche io, finché le nostre risate divennero una e si confusero con il moto delle onde.

Passammo così anche l’estate del 2018.

Fu magica.

Era mi cantò di Moby Dick e delle altre balene che le raccontavano le loro storie; di animali apparsi sulla terra e poi estinti, di piante buone e cattive, di grandi conchiglie, tutte diverse. 

Il castano dei miei capelli si era impreziosito, diventando biondo sole, il mio corpo abbronzato stava esposto alla salsedine e non mi dispiaceva affatto. Era la mia seconda pelle.

Sul finire di quei giorni splendidi cominciò a prendermi una strana malinconia, di quelle che portano in seno la dolcezza dei momenti non ancora finiti e una nostalgia precoce che ferisce appena.

Anche Era sembrava triste. 

Mi domandai se fosse colpa mia. Forse il malumore si spandeva a macchia d’olio impregnando chi stava nel suo raggio.

“No, piccolo. Vieni, ti mostro qualcosa che finora non ho voluto vedessi”.

Capii al volo che non sarebbe stata una cosa bella come tutte le altre. 

Dopo le innumerevoli albe e i tramonti fiammeggianti, la sabbia diamante in profondità e il vento che ci teneva compagnia, viaggiando da sud-est a nord-ovest, venni a conoscenza di quel qualcosa che Era mi aveva celato e che non avrei voluto scoprire.

Il flagello umano della plastica.

Galleggiava ovunque, in minuscole particelle dai colori ingannevoli che attraevano i pesciolini affamati. 

Era mi disse che i piccoli non sempre riuscivano a sopravvivere. 

E le creature più grandi non avevano maggiore fortuna. Delle volte finivano incastrate in buste trasparenti che si muovevano lente e sinuose come meduse.

Mi raccontò di Luccino, il cavalluccio marino diventato famoso, finito sui giornali, immortalato mentre nuotava aggrappato a un cotton fioc rosa, nel mare inquinato.

“Come stride questa immagine, Era”.

Lo dissi con tristezza, pensandoci.

“Sì, amico mio”.

“A te è mai capitato qualcosa di brutto?”

Sospirò.

E inspiegabilmente riprese il tono pacato di sempre.

“Sai, gli esseri umani non sono tutti uguali. Alcuni camminano inconsapevoli, si spostano pesantemente, corrono da una parte all’altra; non vedono nulla, non sentono, non si fermano a riflettere nemmeno una volta. 

E poi ci sono altri, che passano sulla terra leggeri. Sanno ammirare la bellezza del sole che si adagia sull’acqua lontano, guardano le gocce di rugiada sui fiori. Sono attenti.

Mi hanno salvata loro, quand’ero più piccola. La mia testa si era incastrata in uno di quegli orribili cerchi di plastica che tengono assieme le lattine di coca cola”.

“No…”

“Già. Per un po’, infastidita, ho vissuto così. 

Facevo finta che fosse una collana preziosa, per sopportarla meglio.

La trasportavo ovunque. 

Poi però cominciai a crescere e la collana si trasformò in un cappio sempre più stretto.

Un giorno, sfinita, capitai sulla riva di una spiaggia poco frequentata. Chiusi gli occhi piano, temendo che difficilmente li avrei riaperti. 

Ma nel raggio sfuocato della mia vista che si spegneva mi accorsi che uno di loro si avvicinava. O erano due. Non so.

Mi risvegliai, non so quanto tempo dopo,sulla stessa riva, con una sensazione molto diversa. 

Libera, finalmente”.

Non seppi cosa dire. 

Restammo zitti per il resto della serata. 

Lei comprese il mio silenzio attento. 

Volgemmo all’unisono lo sguardo al tramonto, non avevamo bisogno di aggiungere nessuna parola superflua, a quel momento. 

Quell’inverno però, non feci che pensarci. Testardamente. 

Successe qualcosa che soltanto in apparenza spostò da Era la mia attenzione.

In verità, non fece che rafforzare il mio scheletro di idee, già ben solido da un po’.

“Sei innamorato”.

Sorrise Era, quell’agosto del 2019.

“Ma come fai?”

Le chiesi sbalordito. 

Ancora una volta era riuscita a entrare nella mia testa senza bussare né disturbare, contro le mie barriere che immaginavo fatte di corallo. 

“Come si chiama?”

“Greta”.

“È un bel nome”.

“Era, ti ho portato un regalo.”

Un bellissimo impermeabile giallo sole, con il cappuccio, uguale a quello che indossavo io ma della sua misura.

Non me ne separavo da mesi. 

Per me, era il simbolo di un mondo che provava a salpare sulla nave dei giusti; luminoso nella notte, guidava l’essere umano verso la rotta del bene. 

Per la prima volta scorsi un’ombra dubbiosa sul suo volto.

“Questo ti proteggerà dai pericoli che incontrerai in mare, nei tuoi lunghi viaggi”.

Potrei giurare di aver visto scendere una lacrima dai suoi occhi così buoni.

Glielo feci indossare e partimmo insieme, ancora una volta.

Ogni estate portava con sé nuove scoperte. 

Quell’anno, Era mi parlò di letteratura, e non di una qualunque.

Conrad, Melville, Atzeni, Hemingway, etc.

Presi nota mentalmente di ogni nome e titolo, affamato di saperne di più, timoroso di perdermi una virgola, di non avere abbastanza ore e minuti per leggere.

(Se solo avessi immaginato quanto tempo si sarebbe scaraventato su di noi, la primavera successiva!)

Mi portò in un’antica tonnara di pescatori dove mi insegnarono i segreti della navigazione e i nodi marinari. 

Quanta ricchezza. 

La custodivo con cura, luccicante nel petto. 

Fu Era, questa volta, a dovermi aspettare.

Nel suo lento vagare, probabilmente si rese conto che qualcosa era cambiato. 

L’acqua e persino l’aria erano come… diverse.

Limpide. E silenziose.

Di sicuro non le era mai capitata una fortuna del genere.

La immaginai godersi ogni istante, vedere la natura nascere come fosse la prima, antica, volta.

Eppure, si sarebbe accorta che c’era una nota stonata in quella nuova sinfonia.

Ciò che inizialmente aveva scambiato per equilibrio, aveva un tassello mancante. 

Gli esseri umani.

Dove erano finiti? Come poteva girare per il verso giusto la ruota del mondo, con un ingranaggio inceppato?

Magari alcuni suoi amici e amiche del regno animale avrebbero millantato la nostra assenza come qualcosa di straordinario e giusto.

Ma lei aveva me. 

E io non c’ero.

E questo, per lei, era sicuramente sbagliato.

Agosto era prossimo al tramonto e trascinava via con sé quell’estate strana, riempitasi all’ultimo momento nella maniera più goffa e sbagliata di sempre.

E per questo, fondamentalmente, vuota.

Ma, il ventotto agosto duemilaeventi ci vedemmo di nuovo.

Salii sulla mia roccia alta.

Ero molto diverso da come mi aveva lasciato l’ultima volta, con il sole sulla pelle, il cuore pieno, la testa per aria e i piedi sott’acqua.

Ero tornato bianco e smilzo, i capelli e lo sguardo avevano perso la lucentezza che mi aveva accompagnato in quegli anni. 

Ma soprattutto, cosa avrebbe pensato Era di quell’affare celeste sbiadito che mi copriva naso e bocca?

Per una volta fui io a raccontare cos’era successo.

Una pandemia globale. Da cui difendersi con poche, confuse, armi.

Il mondo umano immobile per più di due mesi, costretto a guardarsi allo specchio. Rimestato e rovesciato su se stesso.

“Un’opportunità. Non trovi?”

Chiese Era, genuina.

“Immagino di sì”. 

“Sei triste”.

“É tutto molto strano, Era. Mi sembra che ogni cosa sia cambiata in peggio. Non riesco più a comprendere gli adulti, per esempio”.

Rimase zitta per qualche minuto, in cui ci guardammo negli occhi come la prima volta.

Mi sentivo già meglio.

Poi, sparì sott’acqua.

Mi lasciò solo per qualche giorno ma quando la rividi non potei fare a meno di rimanere stupito.

Indossava una mascherina, uguale identica alla mia.

“L’hai trovata in mare, vero?”

Scossi la testa amareggiato, ma lei sorrideva. Come sorridono le mamme.

“Vieni a fare un giro?” 

Mi alzai.

“Sali”. 

Mi disse indicando con un cenno del capo il carapace.

Le sorrisi anche io, pieno di gratitudine e pace.

Il germoglio della speranza rifioriva lento e paziente in un posticino profondo dentro di me.

Era tornata.

Lei tornava sempre.

© Erika Carta

Big e Blue, un mare di avventure

Un racconto inedito di Erika Carta per il Big Blue Festival 2018, con le illustrazioni di Sara Camboni.

 

C’era una volta un mare di acqua cristallina che si divertiva a spumeggiare con le sue onde, facendo il solletico alla riva e portando via con sé milioni di minuscoli granelli di sabbia dorata.
Era una vastissima distesa turchese che si estendeva in lungo e in largo, dove brillavano tanti puntini luminosi di sole.

Laggiù, nelle profondità sempre più azzurre vivevano due piccoli pesciolini argentati.
Erano gemelli e si chiamavano Big e Blue.
Avevano caratteri molto diversi.
 
Big era spavaldo, coraggioso. Non stava fermo proprio mai, nuotava a più non posso, velocissimo, a destra e sinistra. Non aveva paura di nulla, faceva il gradasso con i pesci più grandi di lui, giocava con i granchi e gli piaceva avventurarsi negli anfratti delle rocce, sparire sotto la sabbia e poi guizzare in alto, su su, quasi fino a toccare il suo cielo.
Blue invece era molto più riservato. Se ne stava quasi sempre in disparte, gli piaceva nuotare piano

 e da solo, farsi cullare dalla posidonia, amica fidata che lo proteggeva da tanti pericoli. Era un pesciolino pigro e timoroso, non era un tipo che attaccava brighe lui, anzi, si teneva ben lontano dai litigi. 
 
Big e Blue però, stravedevano l’uno per l’altro, si volevano davvero un gran bene.
 
 
II
Una volta avevano una mamma. Si chiamava Ama, se la ricordavano bene, soprattutto Blue che ci aveva passato tanto tempo insieme. Lei gli leggeva le storie che parlavano della terraferma, gli raccontava di paesaggi lontani verdi e dorati, completamente illuminati dalla luce del sole.
Big ogni tanto stava a sentire, era impossibile non farsi rapire dalla voce incantevole di mamma Ama, ma tante volte preferiva girovagare assieme al loro papà. Quella luce splendente, che dentro l’acqua filtrava coi suoi raggi sparsi, lui la voleva cercare, per vederla da vicino.
Suo papà gli aveva insegnato un trucco segreto: prendeva la rincorsa, sospinto dalle correnti, e con uno slancio da maestro dava un colpo di pinna e saltava fuori dall’acqua. 
Era questione di tre, cinque secondi forse, ma erano attimi bellissimi, prima che l’aria di fuori cominciasse a diventare ostile e irrespirabile.
“Papà, perché non possiamo vivere là fuori?”.
Gli chiese Big, un giorno.
“E rinunceresti a tutto questo?”.
Rispose Papà Re volgendo lo sguardo all’immensità sottomarina e scomparendo tra sabbia e coralli.
 
III
Poi le cose erano cambiate.
Gli abitanti della terra, quel luogo che per Big e Blue era incantato e misterioso, si erano convinti sempre più di avere il controllo supremo su ogni cosa: prati verdi e distese d’acqua, senza distinzioni.
Agli umani bastava immergere i piedi sulla riva bianca e fresca e guardare verso l’orizzonte, per essere felici. E se ne fregavano se il tappo di una bottiglia vuota finiva accidentalmente in terra. La fatica di raccoglierlo era troppa per loro: uno sguardo a quel pezzo di plastica stonato sulla sabbia e uno al mare, immenso, che pareva poter raccogliere e far sparire nel nulla qualunque cosa.
“Tanto il mare è grande”, dicevano con noncuranza.
Big li aveva sentiti una volta, in una delle sue scappatelle fuori dall’acqua azzurra.
Certo, mamma Ama non sarebbe stata dello stesso avviso. Era successo così, mentre giocava divertita, una mattina d’estate, il sole, tanto forte che filtrava anche sott’acqua.
Era rimasta intrappolata in un cerchio bianco lattiginoso, di quelli che tengono unite le lattine di coca-cola. Sembrava un gioco passarci attraverso. Ma poi ogni cosa si era spenta, il suo ultimo pensiero pieno di luce per Big e Blue.
Papà Re, accecato dalla rabbia, aveva baciato i due pesciolini.
“Vado a cercare i colpevoli. Prenditi cura di loro” aveva urlato dietro di sé a nonno Mar, ed era andato via, sparendo in un vortice di sabbia e dolore, veloce come un razzo.
 
IV
La vita continuava a scorrere come la corrente d’acqua salata che circondava Big e Blue. Nonno e Nonna Mar li avevano cresciuti nell’amore e nel rispetto. 💙👑 Blue aveva imparato a godersi ogni cosa con serenità e pace, continuava a leggere quelle parole magiche che raccontavano le meraviglie della terra, si immaginava i bambini che correvano a piedi nudi sulla sabbia, non molto distante da loro. 👫 E allora nuotava veloce e libero con il suono della voce di mamma Ama a fargli da eco lontana. 🐋 Big invece, covava ancora un piccolo fuocherello di rabbia dentro di sé per quello che era successo.💔 Soltanto i giochi spericolati che amava fare fin da piccolo, erano in grado di spegnere quel fuoco. 💦💦 Stava ben attento a non inciampare nelle lenze trasparenti gettate nel mare, faceva lo slalom tra i rifiuti che finivano per inquinare il blu cristallo del suo mondo.🏖️ La cosa che lo divertiva di più era sfidare i bambini sul pelo dell’acqua. Le loro risate gioiose facevano ridere anche lui. 😀 Era tutto un gioco, ogni volta che riusciva a scappare dalla presa di quelle piccole mani, esultava felice, turbinando nell’acqua. Qualche volta erano i bambini a cercare loro, immergendosi sott’acqua con le pinne e delle strane maschere che schiacciavano il naso e dilatavano le pupille. 🏊‍ “Ci vogliono somigliare”. Rideva il nonno. “Ma non ci riusciranno mai”. Aggiungeva nonna Mar fiera, ma con gli occhi velati di tristezza.
V
Un giorno, Big si sentiva particolarmente solo e dopo tanto insistere, era riuscito a convincere Blue ad allontanarsi insieme a lui. “Vieni Blue, dai. Gioca con me per una volta”. “È pericoloso, sto così bene qui, al sicuro”. “Ma ci sono io, vedrai sarà divertente. Potrai conoscere da vicino gli esseri umani, di cui ti piace tanto leggere”. L’entusiasmo irrefrenabile di Big era davvero contagioso. Blue decise allora di accantonare per qualche istante i suoi timori e seguire suo fratello. Era da tempo che non nuotavano insieme, entrambi si sentivano felici e spensierati. Giocarono a nascondino, fecero gare di velocità tra coralli e stelle marine. Big si spingeva sempre più in alto, guardandosi dietro di tanto in tanto per esser sicuro che Blue non cambiasse idea e tornasse dai nonni. Ma Blue era con lui, e lo seguiva sorridente e fiducioso. Arrivarono tanto vicini alle rocce sulla riva di una spiaggia, la preferita di Big. Gli schiamazzi dei bambini risuonavano come musica dentro l’acqua. Big insegnò a Blue il colpo di coda per uscire allo scoperto e così Blue vide per la prima volta gli essere umani. Rimase sbalordito dai loro movimenti, dai colori, da quanto tutto sembrava brillare alla luce del sole. Saltava in continuazione, si tuffava e poi di nuovo su, in alto. Aveva perfino più resistenza di Big. A un certo punto però, qualcosa andò storto. Blue ci stava mettendo veramente troppo a tornare giù. Big risalì in superficie. Non voleva credere ai suoi occhi ma quel che vide lo fece sprofondare negli abissi della disperazione. I bambini non si servivano più soltanto delle mani per giocare, avevano secchielli e strani aggeggi lunghi come bastoni che finivano con un retino. Lo avevano preso, avevano catturato Blue!
VI
Blue non capiva cosa stesse succedendo. Un attimo prima saltellava felice beandosi di tutto quello che vedeva, così grato a suo fratello Big per avergli fatto scoprire gli angoli di mondo che non conosceva, se non tramite le immagini dei libri che prendevano vita nella sua testa.
Il momento più bello però, era tornare giù, dentro il suo mare, a respirare la vita come gliel’avevano donata.
Ma ora, dov’era l’acqua? Era sicuro di averne addosso ancora un po’, sentiva il sale. Ma sentiva anche il sole, sempre più forte.
Qualcosa stava andando per il verso sbagliato. Non riusciva più a nuotare, ci provava ma i suoi movimenti erano scoordinati. Si sentiva schiacciato, in trappola, impigliato in una strana rete, sballottato da una parte all’altra in quell’aria che non era la sua.
Vedeva immagini sempre più sfocate, non riusciva nemmeno più a pensare.
Diventò quasi buio e poi, improvvisamente, una boccata d’acqua arrivò fresca e decisa come il primo respiro fatto alla nascita.
Nonostante fosse ancora intontito, fece uno scatto velocissimo in avanti, un po’ per la felicità e un po’ per la paura. Voleva scappare il più lontano possibile.
Ma ancora una volta qualcosa andò storto. Se nuotava dritto, sbatteva su una superficie dura e cieca. Se cambiava direzione, succedeva lo stesso. Girando in tondo si era reso conto che lo spazio in cui si trovava era molto piccolo, un cerchio chiuso, con pochissima acqua e senza nessun altro intorno o vicino a lui.
Era solo, in trappola.
Ma almeno respirava.
Guardò in su.
Un sorrisetto diabolico e due occhioni neri lo fissavano con attenzione. Era sicuro di aver incrociato lo sguardo con quel gigante che lo osservava.
Capì che era soltanto un bambino quando una figura grande il doppio si avvicinò al secchiello.
Era una donna bellissima. Doveva essere una mamma, perché il suono della voce delle mamme è inconfondibile.
Blue li osservava affascinato. Erano così vicini, sorridevano.
Gli piacevano, come potevano essere tanto cattivi?
Perché l’avevano tirato fuori dalla sua casa, lui che era piccolo e voleva soltanto giocare?
“Hey, tu. Bambino. Mi senti?”
Evidentemente il bambino non si accorgeva di nulla.
“Guardate cosa ho preso!”.
Urlava.
“Sono stato il più bravo, il più veloce. Ho vinto!”
La sua risata stridula rimbombava nello spazio stretto dove stava Blue. L’acqua stava cominciando a scaldarsi, sempre più in fretta. Era fastidiosa e presto sarebbe diventata insopportabile.
“Cosa avresti vinto?”.
Una voce diversa, calma e asciutta aveva zittito tutte le altre.
Apparteneva a un altro bambino che guardò dentro il secchiello.
“Ti senti tanto forte, il migliore, solo perché hai preso questo pesciolino? È così piccolo, cosa pensi di fare?”
“Voglio guardarlo da vicino”.
“E come ti sentiresti tu, chiuso in un secchio stretto stretto, con poca aria e dei giganti che ti guardano dall’alto?”
“Voglio portarlo nell’acquario che ho a casa”.
“Nell’acquario che hai a casa sopravvivono soltanto pesci d’acqua dolce. Questo ha sempre vissuto qua, nell’acqua salata, lo faresti soltanto morire. Perché non lo ributtiamo in mare?”
Tutti i bambini si guardarono, consultandosi in silenzio sulla decisione da prendere.
“Va bene. Però prima diamogli un nome.”
“Lo chiamiamo con le iniziali dei nostri nomi!”
“Andrea, Roberto, Giulia, Ornella”.
“ARGO!!!” Dissero in coro i quattro bambini.
E così, Andrea prese il secchiello e tutti insieme si avvicinarono alla riva.
“Ciao Argo, anche se sei diventato nostro amico ti liberiamo. È giusto che torni nella tua casa”.
In men che non si dica Blue attraversò una cascata d’acqua, precipitando nell’immensità del mare.
Era sbalordito, estasiato e grato dell’avventura che aveva appena vissuto. La più grande e avvincente, più bella perfino di quelle che leggeva con mamma Ama, o di quelle che gli raccontava Big. Doveva ringraziare lui prima di tutto,  andare subito a cercarlo. Ma prima fece un ultimo salto fuori dall’acqua per salutare i bambini. Erano ancora lì, a guardarlo andar via.
“Grazie amici”.
Quando lo trovò, Big era su tutte le furie. Arrabbiato, creava
mulinelli di sabbia muovendosi da una parte all’altra.
“Big!”
Si arrestò di botto.
“Blue! Sei tu?”
“Sono io, fratellino. Mi hanno liberato”.
La felicità di Big non si poteva esprimere a parole.
Blue gli raccontò ogni cosa: il divertimento, la paura, la curiosità e infine il sollievo.
“Sai Big, avevi ragione. È bello esplorare, giocare… e qualche volta anche rischiare. Non tutti gli esseri umani sono cattivi. I bambini sono come noi, sono intelligenti. Insieme, hanno capito quanto stessi soffrendo, lontano da casa e da te. Hanno fatto la scelta giusta. Sono stati buoni”.
“Questa sì che è una bella sorpresa”.
Rispose Big. “Ma anche io ne ho una per te, vieni!”
Si avviarono verso casa e quello che gli occhi di Blue videro lo resero il pesciolino più felice di tutta l’acqua e di tutto il mondo.
Nonno e nonna Mar sorridevano e accanto a loro c’era papà Re. Era tornato dal suo lungo viaggio e stringeva a sé un pesciolino che si era perso. Si abbracciarono, piangendo lacrime salate di gioia.
Erano di nuovo tutti insieme, in famiglia, con mamma Ama nel cuore e un nuovo amico con cui
crescere e giocare.
“Non si ricorda il suo nome”. Disse papà Re. “Come possiamo chiamarlo?”
Blue sorrise, guardò il cielo attraverso l’acqua e rispose:
ARGO”.
– FINE –
Di Erika Carta
Illustrazioni di Sara Camboni
Big Blue Festival 2018

Big Blue Festival 2018

“Chiamatemi Ismaele. […] Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante […] allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto”.

-Moby Dick. Herman Melville-

Ci sono giorni senza tempo, dove le ore si rincorrono amplificate, inciampando una sull’altra.

Per l’esattezza, parlo di settantadue ore, quelle del Big Blue Festival.  

Festival fratello della Fiera del libro di Iglesias arrivato anch’esso alla terza edizione, che si svolge nel suggestivo spazio dell’antica tonnara di Portoscuso, Su Pranu, con un format differente ma che alla base ha il lavoro ininterrotto e appassionato dell’associazione Argonautilus.

Protagonista assoluto, cuore pulsante e sfondo del festival… il grande blu, il mare.

E la voglia di insegnare ai bambini e ricordare agli adulti di imparare a conoscerne ogni sfumatura e ad amarlo con rispetto.

Riscoprire l’attenzione. Non soltanto per il mare, ma per tutto l’ambiente che circonda il nostro stare al mondo.

Come i Capitani Coraggiosi, di cui abbiamo presentato il progetto durante la prima serata, ci siamo sentiti in dovere di difendere le meraviglie su cui posiamo sguardi e passi, dai pericoli che minacciano di rovinarle. 

Uno fra tanti i rifiuti e in particolar modo la plastica: un male di uso comune e quotidiano a cui noi abbiamo voluto dare nuova vita, nuova forma.

Moby Dick, la balena di Herman Melville.

E per fare questo, non potevamo scegliere aiuto migliore, se non quello dei bambini che hanno partecipato ai laboratori.

Prima missione: non disperdere ma raccogliere tante e tante bottiglie di plastica, ammucchiarle in una montagna da distruggere per procedere alla nostra creazione.

Mi piace chiamarlo Riciclo Consapevole.

Genitori e bambini senza paura hanno letteralmente sfidato il tempo malfermo e alla fine ci siamo ritrovati tutti insieme sulla stessa barca, a solcare mari di fantasia.

I bambini hanno conosciuto le avventure dei pesciolini argentati, Big e Blue; hanno costruito barchette di carta da far navigare su onde di stoffa; hanno creato animali e diorami in plastilina nel laboratorio a cura di Monica Tronci.

Si sono persi, con occhi sognanti e nasi all’insù ad ascoltare le parole di Daniele Aristarco, accompagnate dalla chitarra di Giufà Galati.

E tutti, siamo stati dalla parte di Moby Dick.

Grande e sentita partecipazione anche negli incontri serali dedicati agli adulti. Alla partenza, Alessandra Viola e Piero Martin, autori e divulgatori scientifici, hanno parlato di “Trash, tutto quello che dovreste sapere sui rifiuti”, invitando ognuno di noi a riflettere su questo tema.

La pioggia non ha fermato il reading a cura di Daniele Aristarco e Giufà Galati. Mezzanotte. Sotto le stelle di un cielo immaginario è avvenuto un magico scambio di sogni.

Marco Colombo, Luigi Sanciu e Stefano Vascotto sono intervenuti nel corso delle tre serate portandoci alla conoscenza di ciò che con passione studiano e condividono: l’invasione biologica in atto nel mediterraneo, le origini della fauna in Sardegna, le miniere sul mare. Spunti di nuove coscienze e conoscenze.

Abbiamo ammirato la bellezza della mostra “Conchiglie viventi”, che ci è stata raccontata dal fotografo Bruno Manunza.

E in ultimo, ma non per importanza, il saluto delle autorità, che insieme alle associazioni rendono possibile lo svolgersi di queste attività, in una collaborazione di forze sulla quale si deve battere con sempre maggiore determinazione affinché eventi come il Big Blue Festival possano portare ad esplorare nuovi modi di approcciarsi alla realtà, diffondere cultura e consapevolezza.

D’altronde, siamo Argonauti e non smetteremo mai di esplorare.

di Erika Carta