Le brevi storie di cui Graphe.it ci fa dono sono un po’ come le giornate che sembrano primavera a febbraio.
Inaspettate e luminose, vorresti non finissero tanto presto.
Ma come insegna la frase che dà voce alla collana: parva scintilla magnum saepe excitat incendium.
Una piccola scintilla.
Breve storia del romanzo poliziesco. Leonardo Sciascia.
Impreziosito da un’introduzione di Eleonora Carta.
C’è un filo che li lega, perché conosco Eleonora e sono certa che come Sciascia, ha avuto “un’adolescenza e una prima giovinezza trascorse in compagnia della vorace lettura” di gialli.
Che sempre continua, affiancando il suo lavoro di autrice.
In veste analitica, in questo breve saggio, ci introduce alla storia del romanzo poliziesco, segnalando il punto di confine su cui Sciascia opera magistralmente.
Non più il giallo declassato a mero passatempo, a “meditazione senza distacco” ma “uno strumento d’elezione per raccontare la società e i suoi mali.”
Cuore delle riflessioni di Sciascia, che si aprono qui con un ritratto di Giacomo Putzu, l’assunzione di significati del poliziesco, nel tempo e nello spazio.
Analisi, denuncia, persino frustrazione.
Pensiero critico.
Tutt’altro che lettura passiva.
Il ruolo dello scrittore che inizia a cercare attivamente la verità, identificandosi con il personaggio tanto da riconoscere eguali il metodo di indagine e il metodo di scrittura, come per esempio in Maigret e Simenon.
Da Poe a Christie, da Chandler a Spillane, l’evoluzione delle figure di investigatore e aiutante, di poliziotto e delinquente. Personaggi che diventano “tipi”.
Personalmente, mi ha colpito tantissimo il paragone con le maschere delle commedie d’arte.
Ma se dovessi riportare ogni cosa che ha fatto breccia in me, vi racconterei il libro con parole tutte mie e non ne varrebbe la pena.
Perché ci hanno pensato Leonardo Sciascia, Eleonora Carta, Giacomo Putzu con la sua arte e la la Graphe.it a liberare questo concentrato di bellezza e conoscenza.
Di meraviglia.
Autore: ArgoEri
Piacere mio, Cosimo Piovasco di Rondò.
Al biennio delle scuole superiori continuò la mia fortuna, o il mio destino forse, nell’incontrare insegnanti di lettere uniche nel loro genere.
La professoressa Liliana non era una che dettava titoli e compiti a caso.
Lei, in classe, faceva letteratura. Come in una sorta di trance narrativa, ci portava libri, li raccontava. Liberava le storie tra i banchi, collegava le vite di questo e quell’autore, ci insegnava a riconoscere lo stile, il tempo. Ascoltava, leggeva.
Difficile non rimanere colpiti dalla sua evidente passione di lettrice.
Era un piacere starla a sentire, ancor più se nel sangue ti scorreva questa identica, meravigliosa follia.
Pamela o la virtù ricompensata , Candido, La ragazza di Bube, Due di due, La metamorfosi.
E ancora Verga, Pirandello, Giuseppe Dessì.
E poi… La trilogia di Italo Calvino.
Non è tutto rose e fiori.
Quanto ho odiato Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente.
Una noia mortale.
Che mi piacesse o meno ero stata educata a esser ligia al dovere.
Ma quella volta, la volta in cui avrei dovuto eseguire la scheda di analisi de Il barone rampante, mentii. Presi la scorciatoia dell’internet, ahimè.
Pronta, bella e non scritta da me. Giusto la modifica di qualche parola. Chissà chi pensavo di ingannare, se non me stessa.
La mia compagna e amica fu decisamente più sincera.
“Daniela, hai fatto la scheda?”
“No, prof.”
“E perché?”
“Perché non l’ho letto”.
“E per quale motivo?”
“Perché non mi piace per niente.”
“Raccontami come mai…”
E così, chiacchierarono. Di motivazioni. Daniela ricevette il suo voto negativo per non aver svolto il compito ma io rimasi sorpresa dal tono della conversazione: uno scambio alla pari. Senza rabbia, recriminazioni, dispiaceri.
Via il superfluo, soltanto ancora una volta, la bellezza di un’altra lezione di letteratura.
Sono passati ventidue anni. (Potrei avere un mancamento nel pronunciare questa cifra).
Oggi, grazie all’ArgoCircolo Letterario e alle persone del gruppo di lettura InLibroVeritas, nello specifico Rita, ho girato l’ultima pagina de Il barone rampante.
L’ho letto.
Tutto.
Non vi farò la scheda di analisi, sono vecchia ormai per queste cose.
Però vi dirò cosa ho provato. E cosa ho capito.
Innanzitutto ho finalmente compreso da cima a fondo, l’immensità di Italo Calvino.
Ho capito che i classici hanno un orologio tutto loro.
A cinque pagine dalla fine ho sentito una stretta al cuore.
Dopo averlo evitato per così tanti anni, ora non sono pronta a salutare Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante.
Mi sono affezionata a lui, alla sua giovane e perdurante determinazione, alle avventure, alle emozioni.
Mi sono riconosciuta in questa sua voglia di stare nel mondo, non importa se da una prospettiva insolita, ma connesso.
Più presente a se stesso e agli altri di quanti camminano con i piedi per terra e lo sguardo pure.
Com’è che prima mi annoiava, non lo so.
Anche se, a questo giro, sarò sincera: qualche riga l’ho scorsa velocemente, per continuare ad arrampicarmi dove più mi piaceva.
Perché, e l’ho capito con il tempo, leggere è questo per me.
Carissima professoressa Liliana, anche se quella volta barai come la peggiore delle imbroglione, ho portato a casa il suo insegnamento.
A lei, sicuramente, non interessava la burocrazia di una valutazione (che metodo orripilante mischiare numeri e persone).
Ciò che faceva, come tutte le insegnanti degne di portare questo nome, era piantare quei minuscoli semi di conoscenza e innaffiarli giorno dopo giorno.
Il resto è spettato a noi.
E da me c’è un giardino di terra, cielo, alberi, fiori, frutti, inchiostro e persone.
E grazie.
“Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.
Esprimete i vissuti
Cara maestra Silvana,
Scrivo di getto. Su un foglio di carta, con la penna blu.
Se penso che sei stata proprio tu a insegnarmelo…
Lettera dopo lettera, abbracciate una all’altra, le parole avanzano a comporre la melodia più bella che io conosca.
Così come fanno i ricordi, quelli che mi accompagnano da quando, nel 1996, uscii dall’atrio della scuola elementare Grazia Deledda.
In lacrime, portandomi già addosso la nostalgia delle cose belle e ormai, passate.
Immagini, profumi e sensazioni che oggi esplodono dentro e fuori da me.
Flashback. È una parola che sono certa, ho imparato da te.
Ho passato intere serate, quando la noia era ancora terreno incolto dove piantare fantasia, in cameretta, impegnata nel mio gioco preferito.
Lasciavo me stessa da una parte e prendevo le sembianze di qualcun altro.
Diventavo io, la maestra. Imitavo te.
Scrivevo sulla lavagna del giocascuola, simulavo le tue movenze quando spiegavi la lezione, la posizione delle tue mani, come tenevi la penna rossa per correggere i compiti.
Le ho osservate così a lungo e attentamente che potrei mettermi a giocare anche ora, che ho trentasei anni.
Ci hai spiegato l’italiano e l’ortografia. L’analisi dei testi, logica e grammaticale.
Abbiamo imparato a leggere. Dio, a leggere.
Ricordo le gare di lettura in classe, con un vecchio registratore a cassette.
Tasto REC e le nostre voci impresse sul nastro da riavvolgere per riascoltarci, capire, migliorare.
Mi allenavo tantissimo a casa. La verità è che spesso prendevo il libro e leggevo comunque. A voce alta, anche quando non era prevista nessuna verifica.
Ma, Maestra, quello che hai portato dentro scuola va ben oltre.
Con la tua eleganza, quel viso che sapeva di terre lontane e il tuo profumo buono, che ci restava addosso insieme agli abbracci, ci hai insegnato a essere gentili, a dare sempre una mano a chi era meno fortunato o chi, semplicemente, aveva bisogno di un tacito aiuto.
Hai reso sacra l’importanza di creare legami. Alcuni mai spezzati, altri incredibilmente risplendenti come allora.
Sei stata esempio di sensibilità, rispetto e fermezza.
Ci hai insegnato fin da piccoli a rimanere presenti a noi stessi, a credere in ogni minuto del tempo speso per vivere.
Ci hai regalato un mondo di esperienze, tutte intrise del tuo sapere e della tua passione.
E tante volte, ti sei messa dietro i banchi, in quelle sedie di legno che filavano le calze velate, desiderosa di ascoltare e conoscere dei nostri pezzetti di vita.
Una recita non era soltanto il blaterare a memoria e a vuoto. Dietro ogni lavoro c’erano studio e divertimento, ricerca e tradizione.
Impegno.
Che da te partiva e a noi arrivava.
Abbiamo cucinato in classe i maritozzi con la panna.
Ci siamo sporcati mani e grembiule con la terra per piantare un albero nel giardino.
Il nostro pino. Quante volte passando di lì l’ho salutato, come fosse un vecchio compagno di scuola.
I lavori con il DAS, le bombolette spray oro e argento per Natale, “Su Nenniri”…
Una volta avevi convinto i miei genitori a mandarmi alla gita di quinta elementare, ad Alghero, nonostante avessi la febbre alta.
Non potevo perdermela.
Avevi dato la tua parola che ci avresti pensato tu a prenderti cura di me. Nessuno di noi poteva nutrire alcun dubbio su questo. E io, mi sentivo al sicuro come a casa ma nel frattempo continuavo ad arricchirmi.
“Esprimete i vissuti”. Lo dicevi ogni giorno muovendo con enfasi le mani dalla pancia alla bocca.
Come facevi a sapere che tenevo tutto lì dentro?
Forse perché ce la vedevi negli occhi la necessità di farli uscire fuori.
Perché tu lo sapevi già che il mondo è pieno di parole per dire chi siamo, cosa pensiamo, come stiamo.
E se non lo condividiamo, quale senso può avere?
Maestra, mi hai fatto dono di tutto questo.
Non potrò dimenticare.
Tu lo sai, con quale premura lo porto con me. E sai anche, perché non ho mai omesso di fartelo sapere, che devo a te tutta la mia voglia di raccontare, di meravigliarmi, di mostrarmi estremamente felice o estremamente triste.
Di fare sempre un po’ mie anche le emozioni degli altri.
Di chiedere “come stai?” e dire “grazie!”
Di leggere, e di scrivere.
Ora, ricopio in bella e ti restituisco la millesima parte di tutto il bene che mi hai dato.
Leggo a voce alta perché spero che ti arrivi. Puoi portarla con te, insieme a quella di tutti gli altri bambini che hai abbracciato, sgridato, confortato e spronato.
Spero anche ti tenga compagnia, qualunque sia il posto dove sei diretta.
Intanto, sappi che tu rimani anche qui perché non è per nulla facile salutarti.
Viva sempre, dentro ognuno di noi.
Sono grata che la mia strada sia stata illuminata dalla tua essenza. È una luce che non si spegnerà mai.
Grazi di cuore, Maestra Silvana.
Un altro Natale
“Un altro Natale” è il titolo del libro edito da graphe.it, in questo 2021 per la collana di narrativa “Natale ieri e oggi”.
Un titolo dove la parola “altro” ha due connotazioni, come ha raccontato Roberto Russo della casa editrice.
“Un altro Natale, che stress!”
Oppure “Un altro Natale, e meno male!”
Personalmente propendo verso la seconda. A dicembre, come a maggio, a febbraio, a settembre.
Natale è uno stato d’essere.
Due storie, una vecchia e una nuova, che raccontano la fame.
Perché, sarà il primo vero freddo dell’anno, saranno i profumi intensi, sarà che vorremmo essere scaldati dalle luci colorate e dalle tovaglie rosse… ma a Natale la fame aumenta.
Sia essa del cibo, come quella narrata da Ferdinando Paolieri nel racconto “Il Natale di Granfialunga” , o quella d’affetto raccontata da Susanna Trossero in “Tutti gli Alfredo del mondo”.
Avventura, rischio e riscatto per i Granfialunga sullo sfondo della campagna toscana negli anni 20.
Maestria, giochi di parole e tenerezza per il protagonista della Trossero.
Filo conduttore: la speranza, quella che è difficile mantenere tutto l’anno ma che la notte di Natale torna viva, forte e chiara a farsi sentire.
E trovarla appagata dentro un libro fa star bene anche fuori.
Il grembo paterno
“…e l’acqua l’accarezzava perdonandole tutto, come solo prima di esistere succede, come solo nel grembo materno.
Nel grembo paterno.
Dove galleggiamo quando ancora non siamo successi, nella pancia delle donne, nella mente degli uomini che ci aspettano e che, se si perdonano di farci venire al mondo senza avercelo chiesto, in quei nove mesi devono per forza promettere a noi che tutto ci perdoneranno, che basterà l’amore, l’amore sistemerà sempre quello che sbagliano.
Almeno fino a quando non si sfascia: ma che si possa sfasciare, l’amore, le pance delle donne e le menti degli uomini incinte se lo devono dimenticare, altrimenti non potrebbero essere mai tanto pazzi da invitare un altro essere umano, che per di più dovranno sfamare loro, a partecipare a questo terremoto dove gli altri ci sono, poi escono a controllare i fari, poi non ci sono più e poi tornano o magari no – e chi lo sa cosa è meglio”.
Il grembo paterno è una lettera.
Lunga 223 pagine.
Una lettera che tutti i figli rimasti figli vorrebbero ricevere.
Un racconto, un fortissimo grido, vomito di parole.
Un’ammissione di responsabilità, un “perdonami per gli sbagli che ho fatto e che farò. Provo almeno a spiegarteli.”
E tutte queste parole hanno sempre la sua voce.
Chiara.
La riconosci, ti sembra di risalire a bordo dell’Arca senza Noè, di riprendere da dove “non ci eravamo lasciati”.
Di specchiarti nelle ferite. Sue, di tutti, mie.
Adele si mette a nudo.
Nasce in una famiglia povera, i Senzaniente.
Che poi si arricchisce ma non sa che farsene di tutta quella ricchezza e di tutte quelle parole nuove.
Che si siede attorno a una tavola degli anni novanta, con Gigi Sabani e Magalli in tivù, e poi il silenzio e le ingombranti presenze sotto le sedie.
Il grembo paterno racconta di una generazione che con quelle presenze ci va ancora a letto, ci si sveglia, se le porta in giro, dentro.
Che fa fatica ad abbandonarle, tanto ci son da sempre, che sembrano quasi rassicuranti. Casa, forse.
E parla anche di un coraggio tutto nuovo a cui vien voglia di credere.
Il grembo paterno è una lettera d’amore.
Chiara Gamberale apre continuamente strappi dolorosissimi e poi ci soffia sopra parole.
Ci mette un cerotto su questo tempo malato.
Se ne prende cura.
Finché diventa abitabile davvero.
Casa, sì.
“Io sono convinto che la generazione dei nostri genitori non abbia sbagliato con noi figli perché sbagliava. Tutti sbagliamo. Ma ha sbagliato perché non ci ha aiutato a interpretare quegli errori”.
E all’inizio e alla fine, io, me lo sono abbracciato questo libro.
©Erika Carta
Effetti collaterali
Due cose mi sono bastate per comprare “Effetti Collaterali”, la raccolta di sei storie niure di Rosario Russo, edito da Algra Editore per la collana Sicilia Niura.
Una è stata sentire come parla del mare.
L’altra è che, alla Fiera del libro, mentre una voce di donna dal terapeutico accento siculo leggeva le sue parole, io le vedevo grazie ad Alosha (Giuseppe Marino), il danzastorie di Sicilia che le ballava.
Ma non solo. Oltre a questo, dentro la mia testa si creavano in contemporanea immagini come se stessi leggendo le pagine da me.
Non so se sono riuscita a spiegarmi ma è difficile, perché è stata un’esperienza pazzesca.
Il libro di carta che ho tra le mani è la prova tangibile di tutto questo. Una sorta di memorandum della bellezza che ho vissuto.
I suoi racconti di genere sono come voci, finite e compiute, di un unica grande storia.
E che storia è questa?
È la storia di una Sicilia così come immagino sia.
Fatta di persone.
Piena di mare, di cultura, del profumo di limoni, caffè e cartocciata di melanzane.
Attraversata dall’arte, dalle parole di illustri scrittori. Dalla mafia, dalla vita e dalla morte.
Come ho potuto leggere nell’appassionata postfazione di Salvo Sequenzia, “Russo si interroga mettendo l’accento sull’impossibilità di spiegare il perché delle ragioni del male e della morte”.
È vero.
Eppure il suo modo di narrare ha qualcosa di leggero. Che attenzione, non vuol dire superficiale. Anzi. Trovo sia un valore aggiunto. Il buio mitigato dalla bellezza del mondo, dal senso di appartenenza al territorio, alla città di Acireale, alle sue storie magiche.
Dalla voglia di dircelo.
Leggero ma di una profondità sentita e contagiosa.
La scrittura di Rosario è asciutta, pungente, misteriosa.
I personaggi sembrano raccontarsi da sé, sono schietti, perfettamente delineati dal proprio parlare, muoversi, pensare.
E leggendo, io ho trovato il mio personale comune denominatore di queste sei storie nere: l’amore.
Si cunta ca u pasturi
assai vuleva beni
a Galatea, e pi idda
assai ni visti peni
ma n’da l’occhi si vardavunu
di veri ‘nnamurati
Confessioni di un omosessuale a Émile Zola
“Vivo una vita fittizia e mostruosa, ma la mia esistenza non è quella di un privilegiato? Sono a tratti perfettamente felice e tranquillo, ma in altri momenti non lo sono affatto e vorrei qualcosa di nuovo e non so dove trovarlo. Ah! Perché la natura non ha dato all’uomo almeno dieci sensi? Cinque sono troppo pochi, a cosa possono servire? Dio! Quanto mi annoio.”
Non ci riconosciamo un po’ tutti in questa frase?
Io sì.
Eterosessuale, donna di trentasei anni negli anni ‘20 del 2000.
Eppure a scrivere questa frase è un ragazzo, omosessuale nel 1889.
Ma voglio smettere subito di parlare per “etichette”.
D’altronde colui che ha scritto le parole qui sopra non ha neppure nome.
Lui è Anonimo e le sue sono le “Confessioni di un omosessuale a Émile Zola”.
Essendo io, sempre più a contatto con il mondo dei libri, dell’editoria, degli autori e dei festival letterari come la mia amata Fiera del libro di Argonautilus, sento spesso parlare di narrazione, di tecniche di narrazione. Di trame, schemi, regole per confezionare un romanzo che sia bello, ma anche appetibile come prodotto commerciale, giustamente.
La giovanissima casa editrice Wom, partner della Fiera, fa però qualcosa in più, a parer mio.
Lascia di stucco.
Questa, di Anonimo, è una lettera a cuor scoperto, pubblicata integralmente per la prima volta in italiano.
Scritta divinamente, si fa leggere in modo travolgente dall’inizio alla fine. Non c’è mistero, non c’è suspense, non una scaletta che abbia inizio, svolgimento e via discorrendo.
Ad attrarre in modo così spudorato è la sincerità disarmante dell’autore. Una richiesta d’aiuto, la necessita irrefrenabile di mettere nero su bianco la natura dell’essere, la voglia di capire e insieme di spiegare.
Il soggetto, passatemi il termine, è un giovane italiano benestante, appassionato alla bellezza.
“Mi piace tutto ciò che è bello, e quasi nulla, in ogni genere, è abbastanza bello ai miei occhi, tanto amo quel che è eccezionale, ricco ed elegante. Ho fabbricato con l’immaginazione palazzi più bello di tutti quelli che esistono, stracolmi di opere d’arte scelte tra tutti i capolavori del mondo intero. […] Ai miei occhi la bellezza rappresenta tutto, e tutti i vizi, tutti i crimini mi sembrano da lei giustificati.”
Egli scrive a Émile Zola offrendo se stesso e la sua esperienza personale come figura da aggiungere a “quella galleria di tipi che sono i Rougon-Macquart: un protagonista omosessuale”.
Ma la sua sincerità diviene un’arma a doppio taglio. È troppo, perfino per lo scrittore francese, che affida “Le Confessioni” al medico Geroge Saint-Paul, alias Dottor Laupts.
Così, questa lettera spassionata viene sì pubblicata ma come “caso di perversione sessuale”.
Quello che arriva a noi oggi però è un libro di 148 pagine che “sono al contempo un romanzo, una testimonianza e un documento unici sul coraggio di un uomo che denuda la propria anima di fronte a una società che non riconosce le singolarità che la costituiscono. Una rivendicazione alla sovranità dei corpi, al dovere di goderne, alla tutela di ogni differenza – un messaggio ancora oggi di profonda attualità”.
Non saprei dirlo meglio.
(P.s.) Personalmente ho adorato l’irriverenza di Anonimo quando parla del suo ego.
“Mi sembra sempre di aver finito e trovo ogni volta qualcosa da raccontarle. Del resto mi piace talmente parlare della mia personcina che non smetterei di evocare la mia immagine guardandomi qui come in uno specchio. Non penso ci si possa mai stancare di parlare di se stessi e di studiarsi nei minimi dettagli, soprattutto se l’essere che la natura ha forgiato è tanto eccezionale quanto lo sono io. Penso davvero che dopo tutto ciò che le ho scritto dedurrà il resto del mio carattere, delle mie idee e anche delle persone che mi circondano, ma siccome questo mi diverte enormemente, vado avanti ancora per un poco, più per me che per lei”.
(P.p.s.) E non posso che sentirmi empaticamente risoluta insieme a lui quando infine dice:
“Ah Signore! Sentirsi diverso rispetto a tutti gli altri è talvolta una soddisfazione. Oramai so ciò che sono e ciò che voglio. Tale sono nato, vivrò e tale morrò.”
La felicità non è un caso
Non a caldo. A caldissimo.
Anche perché i pensieri nati in questa settimana hanno preso la loro forma di pari passo con le emozioni e i giorni.
E non vi è alcuna necessità di un tempo fermo per raccontarli.
Se devo scegliere un aggettivo per descrivere questa Fiera del libro, arrivata alla sua sesta edizione, me ne viene in mente solo uno, sopra ogni altra parola:
EROICA.
Dal 2016, con “La cultura al Km 0”, Argonautilus pianta semi nel territorio.
Questo, comincia a essere un raccolto soddisfacente, nonostante si operi talvolta in mezzo a sterpaglie che crescono in terreni perigliosi e ostili.
E no, non lo dico io, soltanto perché lo vivo in prima persona.
In questi giorni sono stata specchio di sensazioni altrui.
Ed è stato meraviglioso e gratificante.
La Fiera del libro è ancora una scommessa stravinta di fronte a scelte infelici e coraggiose.
“Il cambiamento” che, più spesso di quanto vorremmo fa paura, “dovrebbe invece essere vissuto sempre come qualcosa di positivo” come ha detto l’ospite Riccardo Cavallero (SEM edizioni) alla tavola rotonda su “La resistenza del libro”, uno dei svariati momenti di discussione e riflessione tra operatori del settore e il pubblico.
Ed è bene che questo concetto riesca finalmente a far breccia anche nella mia di testa.
Sono stati sei giorni concitati e concentrati. Una Fiera del libro espansa tra Iglesias, Portoscuso, Gonnesa e Zeddiani, con un programma ricchissimo di eventi che ha il suo “dietro le quinte” lungo un anno. E anche di più, se soltanto si provasse a immaginare quanta attenzione e cura ci vogliano per tessere sodalizi, rapporti professionali e relazioni sociali che perdurino nel tempo e negli spazi.
Il fatto che poi dagli incontri fioriscano meravigliose amicizie dipende unicamente dalle persone, dal loro esserci.
E proprio di persone e gratitudine parla Alosha (Giuseppe Marino) “il danzatore di parole”, che dalla Sicilia è arrivato a incantare una piazza della nostra Sardegna.
Conosco le mille e una sfaccettature che irradiano dai libri ma non avevo mai GUARDATO una storia prima d’ora.
Come ho scritto in un post su Facebook immediatamente dopo essermi ripresa dall’emozione:
“Rosario Russo ha scritto un racconto.
Alosha l’ha danzato.
Io, l’ho visto”.
La musica che nasce unicamente dalle parole, il corpo che si muove al loro ritmo.
Ci sarà sempre nuova bellezza da imparare.
La Fiera del libro è spazio di “rincontro”.
È come darsi appuntamento ogni anno in piazza, in un parco, o in un’antica tonnara.
Librerie, biblioteche, case editrici, associazioni, festival gemelli che fanno il punto sulla situazione. Evolvono con essa, si contaminano di bene, contrastano tedio e ignoranze. Resistono.
Seppur difficile è sempre confortante vedere come tutto questo attecchisca anche nei più piccoli, nei loro occhi curiosi… nelle domande che spiazzano.
Una bambina di otto anni che, partecipe, legge con spontanea bontà i versi di Dante Alighieri e della sua Divina Commedia è stato uno dei momenti più felici.
“La felicità è una scelta. Alice vi ha scelto”.
Le parole di una madre.
Partecipare alla Fiera del libro, anche dall’interno, significa vivere su di un filo che tesse le sue reti anche quando i microfoni sono spenti.
Si continua a parlare di libri davanti a un calice di vino. Di trame, di progetti. Ci si confronta su idee diverse, opinioni, pensieri. Si riflette, si ride.
Credo che ridere sia una delle cose più concrete che si possano sperimentare.
Anche mentre si lavora.
E di questo, ringrazio soprattutto i miei compagni di viaggio.
Argonauti, eroi, avengers.
Ognuno di noi si fa in dieci per la riuscita di tutto questo. Impegno, passione.
E nel mentre scappa un’occhiata di intesa, un balletto, uno sfogo. Parole di incoraggiamento e conforto. Un sorriso, un regalo, un messaggio inopportuno, un fotomontaggio.
Ho capito che quandosietefelicifatecicaso non è un monito, un consiglio, un avvertimento prima che sia troppo tardi.
È un modo di essere.
E io, lo sarò.
Uccidiamo lo zio
“Una certa alchimia propria all’isola, li aveva trasformati in una coppia di bambini reali, di bambini magici”.
Trovo sempre incredibili e, forse, i più ben riusciti, quei libri che partono sotto classificazione di un genere e che poi dalla prima all’ultima pagina prendono una strada diversa e contorta, senza che il lettore se ne renda davvero conto.
È questa l’impressione che mi ha suscitato “Uccidiamo lo zio” di Rohan O’Grady.
Il titolo la dice lunga.
Sia ben chiaro: ogni riga è impregnata di “black humor”, sembra un “giallo” alla vecchia maniera. Ma non soltanto.
Tutto il romanzo, nel complesso, è come una vacanza estiva, pausa dall’inverno, una bolla dove si intessono rapporti sempre più fitti al ritmo tra il calar del sole e il sorgere d’ogni nuova alba.
Dove parlare di bugie, violenza psichica, ricatti morali e morte non è poi così tragico.
Strano vero?
Ma questo è l’effetto.
Perché i protagonisti sono due marmocchi, Barnaby Gaunt e Christie Mcnab che per motivi diversi giungono su un’isola tranquilla, pacata e ordinata, dove non succede mai niente, come in tutte le isole, finché non arriva qualcuno a smuovere le acque, a togliere le maschere, a mescolare le carte nel mazzo.
Eppure è la loro naturalezza bambina a rendere tutto così scorrevole e accettabile. Perfino quando si tratta di commettere un omicidio premeditato!
Il nemico? Uno zio cattivo che per primo e con una ferocia subdola e inaudita mira a eliminare l’ultimo ostacolo che lo divide da una cospicua eredità.
La penna di O’Grady sviscera però nella quotidianità del racconto, tantissime sfaccettature della mente umana(e non solo), con particolare attenzione ai rapporti tra adulti e bambini, troppo spesso flebili voci mal interpretate, non udite o meglio… non ascoltate.
Parrebbe un ritmo lento, sonnacchioso, invece ci si ritrova travolti da un’inspiegabile allegria e nello stesso tempo dalla difficoltà di interrompere la lettura, come spiati di continuo da un paio d’occhi sinistri.
Divertente e magico, “Uccidiamo lo zio” è un romanzo del 1963. Rohan O’Grady è in realtà June Margaret O’Grady Skinner, scrittrice sottovalutata che nel 2010 prende nuova vita con la ristampa del romanzo da parte della casa editrice Bloomsbury e che a detta di Donna Tartt, era già allora “molto in anticipo sui tempi”.
Pubblicato per la prima volta in Italia, grazie alla WOM, (acronimo di Word Of Mouth) giovanissima casa editrice che incappa accuratamente su gioielli letterari e che, a parer mio, rende giustizia alla bellezza. Sia essa delle immagini, delle parole scritte o raccontate a voce. Dell’interazione.
E che a una velocità disarmante ha già piantato radici nel cuore di librai, lettori e sostenitori della cultura. Quelli pazzi.
Quelli che…
“stanno spesso in un cantuccio, all’ombra della propria lampada, assorti nel silenzio e in ascolto della cantilena della propria lettura, mentre fuori, la classe dei mercanti e dei guerrieri, degli arrivisti e dei capibanda, degli strilloni e degli arruffapopoli, fabbricatori di best-seller, si scannano e si divorano gli uni con gli altri, mentre l’ombra del tempo è sospesa da un punto e a capo”.
Kimbe Book Fest 3
Martedì 13 Luglio 2021, ore 20:00.
Kimbe Bar, Portoscuso.
Primo appuntamento per la Terza Edizione del Kimbe Book Fest.
Stefania Congiu con “Un cuore logorroico”.