Amuninne

Amuninne

Sono stata in Sicilia tre giorni. 

Un tempo dilatato.

Non c’ero mai andata.

Mi è sembrato di averci sempre abitato e allo stesso tempo di aver visto tutto nuovo, per la prima volta.

Siamo arrivate a Catania che però è sembrata Cagliari per un lunghissimo tratto e che poi improvvisamente è diventata: “Benvenute in Sicilia!”.

Ho addentato un arancino di fronte alla fontana “acqua a linzolu” nella piazza del Duomo.

Ho camminato con i piedi in mezzo ai resti della pescheria in strada e lo sguardo all’insù verso il cielo di ombrellini colorati, come in via Nuova a Iglesias. 

Ci siamo fermati ad Aci Trezza ed è stato subito mare. 

Faraglioni. Familiare.

E se a Catania, Rosario ci ha accolte nella sua terra, ad Acireale ci ha aperto la porta della sua casa. 

Mamma, nonna… perdonatemi ma non riuscirò più a mangiare la nostra parmigiana di melanzane. Voglio quella di Sicilia, fatta in casa!

E seduti al tavolino del bar Cipriani le mie papille gustative hanno incontrato la granita mandorla e caffè, mentre con gli occhi mi beavo della Basilica di San Sebastiano.

Bellezza.

W S.Sebastiano.

Punto di riferimento, fronte Palazzo Framì, per dire in queste giornate: “Ah ecco, siamo vicine a casa.”

Era più emozionato di noi, Rosario, a mostrarci i luoghi vissuti tra le pagine di “Effetti collaterali” da  “Gli amanti immortali”.

Villa Belvedere, con la statua di Aci e Galatea, le Chiazzette e il borgo marinaro di Santa Maria la Scala.

Perché, quando condividi con altri le tue radici, è scambio di linfa vitale. È dono che fai ma che soprattutto ricevi.

Alla fine di una scalinata, nel piccolo scorcio incastonato tra case e mare, vedi la sedia bianca e vuota… e sai che sta arrivando Alosha, il danzastorie di Sicilia.

E si fa silenzio prima, durante e alla fine, quando di parole non te ne vengono. Ed è raro.

Sarà la commozione a dire.

Quasi tre ore di macchina. “Pranzo a Cefalù?”

“Pranzo a Cefalù!”.

E così fu.

Un paese di balocchi sospeso sul mare. 

La cattedrale normanna, le scale con i vasi pieni di colore. 

Maioliche, vicoli e balconi verso il blu.

Ho un cuore molto spazioso per le cose belle. Mi viene da cercarle dappertutto.

Di Termini Imerese posso dire che la notte scura, con il contrasto tra le luci artificiali e la pianta di fichi d’india è stata una cosa bella.

Posso dire che è il motivo per cui questo viaggio si è mosso. Anche se in verità tutto… tutto quanto, è cominciato molto prima.

Il Termini Book Festival, gemellato con la nostra Fiera del libro di Argonautilus, ci ha viste sedute tra il pubblico in prima fila a goderci da vicino le storie. Quelle raccontate da Eleonora Carta, Seba Ambra, Elvira Siringo; quelle del puparo di Palermo. Un fascino che mi ha totalmente coinvolta, tenendomi incollata alla sedia a comprendere una lingua che non è la mia ma che è stata universale.

“W Palermo e Santa Rosalia”.

E a proposito di Palermo.

Anche le cose brutte suscitano emozioni. Anche quelle brutte brutte. 

Non so dare un nome alla sensazione che ho provato percorrendo in macchina l’autostrada Palermo Capaci.

Sono certa che i brividi e il pugno allo stomaco che ho sentito però, sono stati molto forti.

Frutto di un ricordo non mio. 

Ero piccola, lontana. 

Ma vissuto ripetutamente negli anni. 

Corale, nel mondo.

Il ricordo incrollabile di eroi. 

Da Palermo mi porto a casa le vie fatiscenti e l’immensità della Cattedrale; il caseificio urbano CheeseLab e via Maqueda 266 perché fuori da lì ho mangiato il mio cannolo siciliano  senza glutine, con la ricotta classica, i pezzi di cioccolato e l’arancia candita. Non sarei andata via, senza.

Il mercato del Capo e la fontana della vergogna; il palazzo di giustizia e la strada per la cala, nel lungomare, con il murale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La Chiesa di San Domenico chiusa e i quattro canti. 

Il sole cocente e la caffeina rimasta in circolo più del dovuto.

La prospettiva consolidata del gruppo di viaggio peggio assortito che ci sia, che poi però ride a turno di uno e dell’altra; che in macchina canta “Take on me” degli a-ha, discorre di filosofia e storia, ragione e amore. 

E ride.

La gratitudine per l’entusiasmo, la gentilezza e la calma di una persona, che fanno la differenza, che sono necessarie in questo mondo che corre veloce e arrabbiato.

Il ritorno a casa, quella di Acireale. La marea di acesi in festa con lo sguardo alla Basilica e nel cielo i fuochi d’artificio, come a salutare un po’ anche noi. 

Arrivederci.

Il ritorno a casa, quello che appena scendi in pista dall’aereo, a Elmas, ha l’inconfondibile odore di sale. 

Il viale alberato, a Iglesias, che sussurra “Bentornata”.

Perché è sempre bello andare… ma è tornare che è meraviglioso. 

Chi meglio può comprendere?

Da isola a isola. 

Erika Carta