In questa sera di Maggio che sbriga le ultime incombenze prima di chiudere le sue finestre sul tempo, una lettrice e la sua libraia siedono al tavolo di un luogo che dispensa magia e verità. Nel silenzio complice dei volumi che le circondano, davanti a una tazza di tè nero allo zenzero, parlano di Philip Roth.
“Scrivere ti trasforma in una persona che sbaglia sempre. La perversione che ti spinge a continuare è l’illusione che un giorno, forse, l’imbroccherai. Che cos’altro potrebbe farlo? Fra tutti i possibili fenomeni patologici, questo è uno che non ti rovina completamente la vita.”
Uno scrittore nasce tale. Lo è ancor prima di mettere nero su bianco tutto ciò che racconterà.
Lo è quando sta dentro una realtà di vita che lo segna, laggiù in quel profondo che è difficile da levare via.
Tutto il resto è un continuo mettersi alla prova, esercizio senza fine.
Philip Roth arriva al mondo da genitori di origine ebraica. Trascorre anni significativi a Newark, nel New Jersey.
E con acume, osserva.
Protagonista egli stesso e spettatore a tutto tondo dell’essere umano, trasmuta le sue osservazioni in parole, senza preoccuparsi di censurare nessun aspetto.
Il lavoro che lo ha reso celebre nel 1969, “Lamento di Portnoy” ne è prova schiacciante, scabrosa, evidente: Alexander Portnoy, ebreo americano, trascina i lettori dentro la narrazione di ricordi che si muovono su diversi piani temporali. Analizza le manie, i tic, le morbosità sessuali del singolo individuo nel corso della sua vita.
E questo monologo diventa specchio, medaglia dalla doppia faccia, cerchio sigillato dove identità personale e collettiva si influenzano di continuo.
Il racconto lungo “Addio, Columbus e cinque racconti” è il primo grido ironico e graffiante contro quell’America degli anni sessanta che tende alla perfezione, appare, discrimina e offre sogni vestiti di ipocrisia. Ma lo sguardo di Roth penetra senza pietà anche la comunità ebraica americana.
“Lui si definisce Ebreo ateo”, racconta la libraia.
In tanti suoi lavori si legge con chiarezza la critica feroce a questo mondo ghettizzato, chiuso fuori ma anche ripiegato su se stesso, attorcigliato nelle sue morbose convenzioni di perbenismo.
Ogni scrittore, si sa, lascia qualcosa di proprio in ogni narrazione, in ogni personaggio che crea.
Philip Roth riesce ad andare anche oltre questo. Dalla sua penna, tra le righe de “Lo scrittore fantasma” nasce Nathan Zuckerman, alter ego protagonista o personaggio marginale che compare in tanti romanzi.
È Zuckerman a raccogliere la storia di Seymour Levov in “Pastorale Americana” scritto nel 1997 e vincitore del premio Pulitzer nel 1998.
Nella toccante intervista trasmessa dalla BBC nel 2014, Roth afferma:
“Credo che dovremmo leggere solo quei libri che ci mordono e ci pungono. Se un libro che stiamo leggendo non ci scuote come un colpo alla testa, allora perché leggerlo?”
Ed è esattamente la stessa emozione che traspare dallo sguardo della libraia mentre parla di Pastorale Americana:
“Il modo che ha di scrivere, le sue riflessioni scuotono. È tagliente, delle volte esageratamente crudo ma quando chiudi il libro all’ultima pagina, conta quello che ti ha lasciato e che rimane dentro”.
E la lettrice prima di varcare la soglia dell’uscio che la riporterà al mondo esterno, butta un occhio alla sua destra, in quello spazio magico con un cartello che recita: “L’angolo della Libraia”, dove ci sono i libri che lei ha letto, amato e che consiglia.
E sa per certo che Philip Roth… ne farà parte.
“Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite…Beh, siete fortunati.”
-Philip Milton Roth- (Newark, 19 marzo 1933–New York, 22 maggio 2018)